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Il Nobel di Tranströmer: l’intimità silenziosa di uno svedese

di Paolo Rigo / 8 ottobre

E così il premio Nobel è stato assegnato a Tomas Tranströmer, un signor nessuno (o quasi) in Italia. Un poeta, un vecchio signore con i capelli bianchi e la faccia ingenua e piena di rughe. Già. Chi l’avrebbe mai detto? L’altro ieri mattina la Stanley Bet aveva fatto partire le varie quote di scommesse. Ormai si scomette su tutto, eh. Vi posso assicurare che Tranströmer era quotato malissimo, qualcosa come uno a trenta, malissimo anche per gli inglesi. Io non l’avrei messo neanche in tripla, figuriamoci giocare un picchetto su di lui. Una brutta sorpresa per gli scomettitori e una brutta sorpresa per gli altri, i nostri, Eco, Saviano su tutti, e per chi, come l’americano Roth, tra la nebbia di Stoccolma, densa e grigia, sembra che non riesca a tingersi di europeo, prerogativa quantomeno imprescidibile per il Nobel, mentre rimane, invece, attaccato ad una sorta di provincialismo americano. Tomas Tranströmer: in Italia, a dispetto della traduzione in cinquanta lingue e del successo editoriale in patria (trentamila copie vendute per un suo libro di poesie, incredibile per la poesia), ha trovato ben poche edizioni, la maggior parte della sua opera l’ha stampata Crocetti, che pubblica poesia e autori greco-latini (soprattutto questi ultimi: ma dove li trovano di nuovi?). Aldilà degli scherzi, la realtà è che il premio Nobel di quest’anno è una vera sorpresa e mostra una nuova tendenza, in parte preoccupante, in parte interessante, come tutte le cose nuove del resto. Analiziamo il fenomeno da vicino. Era dal 1996, se memoria e wikepedia non ingannano, che un poeta non vinceva un premio Nobel, in qual caso la scelta cadde sulla poetessa polacca Wisława Szymborska. I più maligni diranno che sì, forse, l’anno successivo avrebbe potuto, o dovuto, vincerlo Mario Luzi, ma si scelse Dario Fo, e a noi italiani tutto sommato ando bene anche così. Del resto altre polemiche ci furono per Levi, Calvino e forse anche per Ungaretti. Il Nobel  però è così, molti rimpianti, ma sono voci che devono spegnersi: la più grande mancanza alle varie liste? Gandhi: e le altre polemiche si spengono. Ma Tomas Tranströmer? Come scrive e cosa scrive? Poesia è chiaro, l’ho scritto prima, ma che poesia? Versi facili, veloci, istantanei. Si ispira alle composizioni haiku giapponesi, le ha europizzate (messaggio subliminale per Roth), le ha mischiate con la sua tradizione nordica, con le sue abitudini, con i suoi paesaggi, con i suoi animali, i suoi suoni, i suoi sogni e le sue visioni e ha prodotto qualcosa di personale, di vivo. Su cosa scrive? Basta leggere quel poco che si riesce a trovare: poesie di abitudini, poesie dell’intimità, dell’intimità propria e feroce, che ad un primissimo sguardo, a me, fanno pensare all’ultimo Montale di Satura e Xenia. Il Montale svedese che non parla ma scrive versi come: «Corse fuori nella notte la telefonata rifulgendo in campagna e nelle periferie. / Poi dormii preoccupato nel mio letto d’albergo. / Somigliavo all’ago di una bussola portato nel bosco da un fondista col cuore palpitante». Il Nobel quest’anno l’ha vinto un poeta che non guarda sempre fuori, anzi, che riflette sulla parola ˗ come faceva l’ultimo Luzi ˗ un poeta che guarda sé stesso e cerca di raccontare un’intimità comune e devastante, un poeta che ascolta la condizione solitaria dell’uomo, una tendenza diversa rispetto agli ultimi anni, agli ultimi premi, più che Nobel letterari, Nobel civili, ricevuti da chi dipinge la propria realtà e si interessa della propria società, per carità ottimi propositi, ma bastano per entrare nell’olimpo della letteratura? Se consideriamo i grandi nomi-sociali forse solo Pasternak merita davvero di sedere tra gli allori che lui stesso ha rifiutato. Non divaghiamo, che questo Nobel sia un nuovo monito? Forse dovuto anche alla crisi che alberga da due anni? «Lasciateci soli», sembra il grido che parte da Stoccolma, guardatevi dentro, aprite una prospettiva vecchia ma nuova, potremmo dire dimenticata. Per buona pace di Saviano, Eco, che sono bravissimi ma che non si è mai capito troppo bene che mestiere facciano: scrittori? Giornalisti? Saggisti? Staggisti? Registi? Sceneggiatori? Da Stoccolma quest’anno parte di nuovo il messaggio di guardare verso la poesia e l’uomo, di più non possono darci e sembra quasi fare eco un vecchio messaggio: «Codesto solo oggi possiamo dirti: / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Ah l’inspiegabile nobel.