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“Giorni perduti” di Charles Jackson

di Daniele De Cristofaro / 16 luglio

Giorni perduti di Charles Jackson, romanzo tra i più validi ed emblematici della letteratura americana contemporanea, si può definire come la cronaca di un giovane alcolista di trentatré anni, Don Birman, il quale trascorre diversi giorni (un lungo weekend) da solo a New York in preda ai fumi dell’alcool, tra reminiscenze del passato, sogni a occhi aperti e vicende surreali.

In verità l’autore aveva a cuore di evitare che questa sua impresa letteraria venisse considerata e ridotta alla stregua di una mera testimonianza, seppur profonda ed esemplare, circa gli effetti dell’alcolismo.

Tuttavia il materiale trattato nell’opera, seppure in forma artistica e narrativa, rappresenta uno dei quadri più esaustivi e completi riguardo alla morfologia e alle dinamiche dell’alcool sull’organismo e sulla psiche. Con una descrizione lucida ed estremamente realistica Jackson mostra come il suo personaggio attraversi tutti gli stadi inerenti all’ebbrezza alcolica e alla sua dipendenza: dal rilassamento e dalla disinibizione iniziali che portano a un sentimento di potenza – i sensi stimolati, la mente sgombra, eccitata e totalmente presente a se stessa – alla percezione di lacerante abbattimento del dopo sbronza, ai rimorsi, ai sensi di colpa – generati dal subentrare prepotente del Super-io, che era stato temporaneamente sostituito dall’ego ubriaco – dai quali l’alcolista cerca di sfuggire solo avendo la fortuna di essersi lasciato accanto una bottiglia a portata di mano (bere per sopperire ai mali del bere). Infine, a lungo andare, il crollo psichico e fisico, il delirio paranoide e le allucinazioni. Questo per ciò che riguarda l’aspetto scientifico e clinico del fenomeno che traluce dal racconto. Naturalmente il talento narrativo di Jackson, la sua notevole capacità di sfumare la realtà in tutti gli aspetti della vicenda, non si riduce certo alla descrizione di un quadro clinico – come ebbe a dire un famoso psichiatra dell’epoca, definendo l’opera «uno straordinario trattato sulla mentalità alcolica». L’autore mette sapientemente in scena anche un dramma umano, il dramma di un individuo estremamente intelligente, ma che fin dall’infanzia si sente già sconfitto, sfiduciato, per poi scoprire, nell’età adulta, che le promesse del futuro erano e sono rimaste solo promesse.

Nella sua vita sono mancati quei tasselli, quelle prove essenziali che avrebbero fatto di lui una persona integra, perfettamente sviluppata e consapevole; ma il fallimento, si sa, implica la fuga disperata da ciò che siamo, la caduta in una condizione subumana, ove sopra di noi rimane tutto quello che avremmo potuto e dovuto essere. Il mondo è pieno di vie di fuga, Don Birman decide di fuggire dalla realtà, dal suo fallimento esistenziale, dandosi al bere. Tuttavia Don non si può definire un vigliacco, semplicemente è una persona dotata di sensibilità e intelligenza troppo sviluppate e quindi troppo indebolite, che riemergono sconfitte dal confronto con la realtà. Ed ecco allora che si innesca e si sviluppa il processo che apporta una sorta di seconda vista, quella del sogno e dell’immaginazione che , condite dall’ebbrezza alcolica, compensano i deficit e le inettitudini nel campo pratico del quotidiano.

Fin qui si potrebbe pensare che siano state esclusivamente esperienze negative pregresse, vissuti anteriori dell’individuo che lo abbiano indirizzato e scortato sulla via dell’alcolismo e della dipendenza.

Ma non è esattamente così, o almeno non è così semplice. Vi sono altre motivazioni, talora latenti, altre volte manifeste, all’interno del libro, che esulano dai dati empirici, che trascendono il singolo individuo e approdano a una realtà inerente alla natura umana. È evidente che albergano nell’animo dell’uomo degli impulsi distruttivi e autodistruttivi, la parte più squisitamente demoniaca della nostra natura. Vi è una sorta di perversa voluttà nell’autodistruggersi, e Don Birman incarna l’eletto tipo di questa tendenza – l’individuo che cammina rasentando l’orlo dell’abisso e che attende il momento in cui vi sprofonderà. Già lo stesso Hugo non a caso affermava che «in fondo all’abisso c’è una calamita», inoltre noi tutti almeno una volta nella vita siamo rimasti affascinati dall’idea della caduta, dall’idea di toccare il fondo, di lasciarci andare totalmente. Ecco, l’alcolista è un partigiano della caduta e dell’autodistruzione, che usa questa medicina infernale (l’alcool) per guarire da quella malattia che ha nome Vita («l’alcolismo è la cura, la vita è la malattia»).

Vi è una sorta di provvidenza demoniaca che si sottende alle vicende di Don, che lo salva quando dovrebbe invece annientarlo, lo fa riprendere, così che egli scampa dal pericolo fatale solo per perdersi di nuovo.

Il romanzo quindi descrive questo circolo vizioso e risulta privo di un vero inizio così come di una autentica conclusione: esso è solo un intermezzo, riporta la cronaca di un periodo di baldoria, come ce ne furono innumerevoli nel passato della vita del protagonista e come ce ne saranno altrettanti in futuro.

Una storia «irredenta», così la definisce Simone Barillari, il curatore di questa nuova edizione italiana, che rappresenta tra l’altro la prima edizione critica del testo che sia mai stata realizzata.

 

(Charles Jackson, Giorni perduti, trad. di Simone Barillari, Nutrimenti, 2014, pp. 352, euro 18)