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Cinema

“Wild”
di Jean-Marc Vallée

Un lungo cammino di rinascita candidato a due premi Oscar

di Francesco Vannutelli / 31 marzo

Erano due le nomination agli ultimi premi Oscar per Wild di Jean-Marc Vallée, entrambe per le attrici, protagonista Reese Witherspoon, non protagonista Laura Dern, figlia e madre nella ricostruzione del vero viaggio di Cheryl Strayed, scrittrice che all’inizio degli anni Novanta, poco più che ventenne, decise di percorrere a piedi in solitaria il Pacific Crest Trail. Nel 2012 quel viaggio è diventato un libro di memorie (Wild: From Lost to Found on the Pacific Crest Trail, pubblicato in Italia da Piemme) di grande successo negli Stati Uniti.

Il Pacific Crest Trail – in Italia noto come Sentiero delle creste del Pacifico – è un percorso di trekking che collega la California con la Columbia Britannica, in Canada, lungo tutta la dorsale pacifica del continente nordamericano. Quando Cheryl decide di partire per il Sentiero non ha nessuno tipo di formazione da alpinista. Ha solo il bisogno, fortissimo, di far ripartire la sua vita dopo quattro anni tutt’altro che facili. C’è stata la morte della madre Bobbi, e prima ancora la sua malattia. C’è stato un lungo periodo di smarrimento tra droghe e avventure extraconiugali, finché il marito non ha perso la pazienza e ha deciso di lasciarla. Prima c’erano stati vari momenti traumatici nell’infanzia. Insomma, una vita molto poco semplice che era ormai arrivata a un momento critico: o la svolta o il tracollo definitivo. È al lungo cammino in solitaria che Cheryl affida la ricerca di se stessa in una prova per cui sente di non essere fisicamente preparata, ma a cui sa di dover affidare tutto.

Difficile non pensare a Into the Wild di Sean Penn avvicinandosi a Wild di Jean-Marc Vallée, sia per i titoli quasi identici, sia per il tema portante della fuga nella natura. Se, però, la storia di Christopher MacCandless era quella di un uomo che abbandonava la società per rifugiarsi in una dimensione altra dal mondo  quotidiano, localizzata idealmente in Alaska, il viaggio di Cheryl Strayed ha un connotato ben diverso, quello del ritiro, più che della fuga, del rifugio dalla vita per un periodo già determinato di tempo, lungo un percorso che è sì solitario, ma noto e condiviso da altri viaggiatori. Perché quello che vuole Cheryl non è perdersi nel viaggio, ma al contrario ritrovarsi.

Nel film di Sean Penn, MacCandless aveva tutta la vita davanti nel momento in cui decide di partire, e il motivo della sua partenza è proprio la rinuncia a quella vita che gli si sta aprendo davanti, alla laurea, alla macchina, ai soldi. Cheryl, al contrario, deve ritrovare delle ragioni per se stessa e per la sua vita, dopo il randagismo sessuale e la tossicodipendenza, senza il conforto della madre e del marito in cui trovare un riparo. Se quello di Into the Wild è un racconto di formazione attraverso la natura, quella di Wild è una storia di rifondazione attraverso il viaggio e la negazione della vita quotidiana.

Jean-Marc Vallée continua a trovare ispirazione per il suo cinema nelle nelle vite di persone che realmente, una volta toccato il fondo, hanno deciso di arrampicarsi per tornare in cima. Sono storie di riscatto morale attraverso la sofferenza, che arrivi da una malattia come in Dallas Buyers Club o da una crisi individuale come in Wild. Nel raccontare la storia di Cheryl Strayed, Vallée si affida allo stesso linguaggio empatico utilizzato per la vita di Ron Woodrow. Lo spettatore è chiamato a partecipare al dolore, allo scempio del corpo, alla spirale della caduta. La fatica e la sofferenza di Cheryl vengono mostrate subito in apertura, con gli scarponi troppo stretti che logorano le dita dei piedi e tutta la rabbia che esplode quando uno dei due cade di sotto e viene perso, per sempre.

Per aumentare il coinvolgimento emotivo, Vallée procede con continui flashback che alternano le varie tappe del cammino, scandite a giorni, a momenti diversi  e non continuativi della vita precedente della Strayed: l’infanzia, l’adolescenza, l’alcol bevuto dal padre e le botte subite dalla madre, la malattia, la morte, la droga, gli uomini, il divorzio. Il dramma, in questo modo, si distribuisce per tutto il film, a mantenere ed elevare di continuo la tensione tragica.  Wild, però, sembra faticare a trovare una propria, specifica dimensione narrativa. Nonostante la sceneggiatura sia stata curata da niente meno che Nick Hornby,  a mancare è soprattutto la brillantezza della scrittura, che è l’elemento più debole di quello che è comunque un film fatto soprattutto dalle immagini e dai paesaggi sconfinati della Pacific Crest Trail (e dalle canzoni, perché c’è un uso intelligente della colonna sonora e di vari classici, da Leonard Cohen ai Portishead, che si intrecciano nella memoria di Cheryl). In questa grandezza paesaggistica, però, Vallée e Hornby hanno fatto fatica a calare Cheryl, che non entra mai in reale rapporto con la natura, che continua conservarsi corpo estraneo ai boschi in cui si immerge, alla neve e al deserto. Non c’è un vero rapporto di scambio tra uomo e natura, non c’è quell’arricchimento reciproco che è invece la forza di MacCandless in Into the Wild. Di conseguenza, senza una vera interazione con l’elemento naturale, quello che rimane è una retorica del dolore e della rinascita che si è già vista tante volte.

Reese Witherspoon è stata candidata per il suo coraggio nel mostrarsi sporca e sfatta in modi e momenti diversi. Le ha fatto compagnia Laura Dern, che come madre alternativa e sempre, ostinatamente, di buon umore, fa da guida morale a Cheryl.

(Wild, di Jean-Marc Vallée, 2014, drammatico, 115’)

LA CRITICA - VOTO 5,5/10

La storia vera del viaggio di rinascita a piedi di Cheryl Strayed offre a Jean-Marc Vallée un nuovo spunto per una storia di ricostruzione dopo Dallas Buyers ClubWild, però, non riesce a trovare un equilibrio tra ambiente e personaggio, tra dramma e speranza, e si perde in retorica. Belli i paesaggi e la musica.