Flanerí

Libri

“Mille esempi di cani smarriti”
di Daniela Ranieri

Un racconto sulla complessità della società contemporanea ma anche sull’essenza stessa del sentirsi vivi

di Chiara Gulino / 5 febbraio

Mille esempi di cani smarriti (Ponte alle grazie, 2015) dell’inviata de il Fatto Quotidiano Daniela Ranieri è il racconto di come in realtà, nonostante tutti i tentativi di trovare un senso, il vuoto esistenziale è l’unico luogo che ci è dato abitare.

Questo posto può anche essere una terrazza di un palazzo della Roma bene nel quadrante nord, quale quella di Luciana, assiduamente frequentata da neghittosi radical chic, un sinedrio di snob privilegiati, osservanti riti ed etichette, simbolo della decadenza morale della buona società di un tempo, una società che esibisce mercantili egoismi e occulta cupi segreti e rancori. Diceva Henri Bergson nel suo saggio sul riso: «Noi non vediamo le cose, ci limitiamo a leggere le etichette che ci sono incollate sopra».

Il sedicente artista Barbato Magnus, il professorone seduttore seriale Erasmo con le mani in pasta nella corruzione sanitaria, o la coppia vegana Teresa e Amilcare ricoprono il mondo di etichette e bugie per differire da sé lo sgomento dell’autenticità. Sono esponenti di un circo senza qualità con il solo scopo di scroccare, prototipi di un Paese sfibrato di inamovibili, raccomandati, incompetenti e corrotti.

Fatica ad accettare gli amici di Luciana, «quei facoltosi viziati tormentati e leccaculo», il quasi marito Antimo, che guarda con riluttanza a questa rispettabilità borghese di facciata. Figlio di un prete, Antimo è condannato «a un entropico non-vivere, non evolvere, non crescere», impotente nella vita e nel dare la vita: «È meno che una persona e più che suppellettile, con la sua virilità rasoterra». Infatti Cecilia, che pur ama come fosse sua, è figlia di Luciana e del ristoratore Valte.

L’aria in casa è satura di schegge di vetro. Luciana considera il compagno «un disutile, ecco che era, manco inutile, ché l’inutilità è quella degli artisti, è bellezza». La tentazione fin troppo umana di Luciana e Antimo è quella di arroccarsi nelle proprie convinzioni, scegliendo la via dello scontro. Se è vero che in un matrimonio il compromesso è il preludio di soluzioni possibili anche se spesso dolorose, questa coppia è la dimostrazione che il compromesso felice non esiste.

Se la deformità fisica di Antimo (è affetto da zoppia sin dalla nascita) costringe il lettore a sentire anche fisicamente la pena di vivere del personaggio, dall’altro il suo malinconico mood drammatico-satirico dall’accento romanesco del popolino non può non destare simpatia. Popolino che Luciana aborre perché «retrogrado, fascista e retrivo», unica eccezione è l’accoglienza in casa della bella Franca, l’amica di Cecilia, dalla difficile situazione familiare. Le due ragazze fanno venire in mente la complicata amicizia tra Lila e Lena, protagoniste de L’amica geniale di Elena Ferrante: «Una addentava la vita con cattiveria e sarcasmo, lucente, gloriosa, irresponsabile; l’altra la guardava succedere sperando di sopravvivere a essa, come i prigionieri in Siberia guardano le icone».

Ad Antimo il brivido tornò con Franca, la cui bellezza periferica, ai suoi occhi, appare tanto indiscutibile quanto ipnotica. Si tratta di fugaci lampi a rischiarare per un momento il monotono grigiore della sua esistenza, reso tale da un odioso, claustrofobico e coercitivo rapporto con Luciana. Antimo è un mirabile esempio di come persino un uomo apparentemente irrilevante, pura insignificanza fatta persona, possa essere scaturigine di slanci e tormenti, in cui la sua passione per la giovane amica della quasi figlia Cecilia si trasformi implacabilmente in ossessione.

Franca però ha qualcosa d’imponderabile, come un demone cieco e dispotico cui non può non obbedire. Utilizza la terapia del dolore come antidoto alla finzione della vita quotidiana. Infatti, tra molti bassi e pochi alti, la relazione con il professor Erasmo procede tra squallidi incontri clandestini, bugie malcelate, in una precarietà sentimentale che non ha nulla di erotico, un gioco sull’amore sfociante nella condanna di chi non sa provarlo. Una pochezza aggravata dalla natura del personaggio, maschera di se stesso, impegnato a giocare una parte insignificante in una recita mediocre. In Erasmo la tracotante vanità è pronta a sfiorare il ridicolo.

I grandi romanzi devono fondarsi non solo sulla forza della trama o del dialogo o dello sviluppo dei personaggi, ma anche sull’audacia della prosa. E quella di Daniela Ranieri è una scrittura esuberante, fiorita, colta, che a tratti ricorda il pastiche gaddiano, minuziosa nel descrivere i pensieri dei personaggi, che osserva da uno sguardo laterale, come se entrasse da un ingresso secondario, e con parole usate al posto giusto nel tratteggiare una scena. La storia corre su binari di due piani temporali che solo alla fine sembrano ricongiungersi. Lo stile, diceva Truman Capote, è «lo specchio della sensibilità di un artista» e Mille esempi di cani smarriti (citazione da Madame Bovary) è un meraviglioso dono dentro cui si nasconde un’articolata, cinica, tragicomica drammaturgia privata.

 

(Daniela Ranieri, Mille esempi di cani smarriti, Ponte alle grazie, 2015, pp. 540, euro 19,50)

 

LA CRITICA - VOTO 9/10

Mille esempi di cani smarriti è un racconto sulla complessità della società contemporanea ma anche su quella tessitura, a volte elementare, a volte aggrovigliata, degli affetti, che riguarda l’essenza stessa di sentirsi vivi.