Libri
Riducendo tutto all’osso
“La vita felice” e la poetica dell’essenziale di Elena Varvello
di Virginia Giustetto / 12 settembre
Quando ho letto per la prima volta alcune pagine di quello che sarebbe diventato La vita felice di Elena Varvello (Einaudi, 2016) l’estate era finita da un po’ ma le giornate erano ancora lunghe e miti. Dovevo preparare un esame universitario e avevo deciso di trasferirmi a studiare sull’amaca del giardino. Va da sé che poi, una volta che quelle pagine finirono tra le mie mani, lo studio tramontò e mi ritrovai immobile a immaginare il seguito, desiderosa di andare avanti e, allo stesso tempo, di trattenermi ancora un po’ insieme a quei luoghi e a quei personaggi.
Partiamo dalla struttura: un prologo intitolato Nei boschi, e poi trentacinque capitoli in cui due storie diverse – il racconto di un’estate e quello di un rapimento – si alternano. Infine un epilogo, in cui Elia, il protagonista, si ritrova adulto. Ad alternarsi, però, non sono solo due storie, ma quasi due generi letterari, a cui corrispondono inevitabilmente due stili. Se ci affidiamo alle etichette, diremmo che da una parte c’è il romanzo di formazione, dall’altra il noir.
In effetti il libro è queste due cose di cui parli tu. Allo stesso tempo, il racconto dell’estate di Elia, capitoli distesi e lenti che seguono il passo dell’estate, lenta e calda, e poi il racconto di una notte precisa. La scansione, da un punto di vista strutturale, era necessaria, perché io non avevo idea di cosa sarebbe successo alla ragazza; nasce dall’esigenza di rallentare il più possibile la storia: non conoscevo il seguito e ne avevo molta paura. Quello che viene fuori è una notte che si allunga tantissimo, perché tutto è frazionato, brevi capitoli inseriti tra pagine più dense, una sorta di thriller involontario.
Nel rapporto tra queste due parti, mi premeva fosse chiaro che il racconto della notte è una storia narrata da Elia; voglio dire, lui non sa nulla di cosa sia successo. Ciò che fa è immaginare la storia di suo padre, nei primi capitoli con una certa distanza, poi si spinge così in là da diventare suo padre. Raccontando la storia di se stesso e di quell’estate, dell’amicizia e dell’amore, racconta la storia di suo padre. Nel senso che la immagina. È un libro anche sul raccontare le storie, su noi stessi e sul valore che le storie hanno: sull’afferrare ciò che è inafferrabile.
A proposito del rapporto tra immaginazione e realtà, i due capitoli che aprono e chiudono il romanzo, esclusi il prologo e l’epilogo, sono intitolati Verità. Ma questa parola torna più volte: è il titolo delle lettere che il padre scrive a destinatari ignoti ed è il tema di cui si parla, per opposizione, nell’epigrafe del libro: «In talking about the past we lie with every breath we draw». In qualche modo, la verità è uno dei grandi argomenti di La vita felice.
In La vita felice la parola verità assume almeno tre sfumature. Tutto comincia proprio dall’epigrafe, che è venuta subito ed è rimasta in tutti e sei gli anni necessari alla stesura del romanzo: volevo fondare la storia sul fatto che Elia fosse un narratore inaffidabile. Il modo più diretto per dirlo è stato inserire una citazione che rivela che quando parliamo del passato mentiamo in ogni nostro respiro. Eppure io sono convinta che i narratori inaffidabili siano i più affidabili: voglio dire, dichiarando di non esserlo, non pretendono di esserlo e lo diventano.
Poi ci sono i due capitoli che incorniciano la storia e che portano lo stesso titolo. La scelta non è casuale, ma segnala uno scarto. In Verità 1 si parla della ricerca di verità da parte di Elia: s’intende la verità dei fatti, ciò che egli non sa e vorrebbe scoprire. Verità 2 sposta la questione su un altro piano. Dalla verità dei fatti si passa a quella su noi stessi: una verità molto più ambigua che risponde alla domanda ma io chi sono. E allora sì, c’è il titolo delle lettere, che è Verità, unito al pronome Io. Ettore cerca la verità su se stesso, eppure, nel momento in cui spinge il figlio a conoscere le lettere, è come se il pronome Io passasse da lui a Elia. La domanda diventa Dimmi chi sono. In fondo quante volte affidiamo la verità di noi stessi a un altro?
Hai fatto riferimento a Ettore, a Elia. A quale personaggio è stato più difficile dare voce?
A Ettore, il padre, probabilmente per una questione di equilibro. Avevo la sensazione di muovermi su un crinale sottilissimo: non volevo cadere nella visione del padre mostro, folle, o del padre padrone. Così tutto quello che Ettore dice risponde sempre al tentativo di stare in equilibrio.
Il personaggio di Marta è quello a cui sono affidate le frasi più belle.
Con la madre di Elia ho dovuto avere pazienza. Le ho assegnato il senso della storia, ma non poteva rivelarlo nelle prime pagine: così ho cercato di trattenerla dal dire subito quello che aveva già capito, e a cui si poteva arrivare solo gradualmente. Anche da lettori con lei bisogna pazientare. So che per molte pagine potrebbe non essere compresa, ma basta aspettare: alla fine è un personaggio che brilla. La trattengo, in parte la soffoco nel dirle “aspetta, non ancora”, ma poi esce.
E poi c’è il paesaggio, che nei tuoi libri è sempre un altro personaggio, perché gli stati emotivi interiori si riflettono all’esterno, attraverso i luoghi:
Per me è impossibile immaginare una storia se prima non compaiono i posti. Voglio dire, prima del furgone nel bosco, c’è il bosco (nei miei libri tornano spesso i boschi e la provincia). I luoghi sono rappresentazioni fisiche dei caratteri, quasi correlativi oggettivi. Così, in La vita felice, il bosco è Ettore, il padre, e al vento corrispondono le parole di Elia quando dice: «avevamo la percezione di poter fermare il tempo». Il vento è il tempo, che sospinge tutto avanti. Poi c’è il giardino di Santo Trabuio, con la carcassa dell’automobile che probabilmente è lui stesso. C’è il gabbiotto soffocante, gli alberi scheletrici che compaiono la prima volta che è presentata Anna. E tutto questo avviene a Ponte, il paese in cui la storia è ambientata, luogo che puoi attraversare per andare altrove o percorrere per tornare indietro.
Sul blog della casa editrice Sur di recente è stata tradotta un’intervista di Mark O’Connell a Don DeLillo, realizzata in occasione dell’uscita di Zero K. O’Connell propone a DeLillo alcune corrispondenze tra l’ultimo romanzo e i grandi capolavori precedenti, Rumore Bianco, Libra e via dicendo. In risposta DeLillo afferma di avere un ricordo molto vago delle sue storie, sostiene di non rileggerle e di dimenticare, dopo tanti anni, i nomi di alcuni protagonisti. In un primo momento ho pensato fosse una risposta spiazzante, per certi versi anche triste, poi però mi sono detta che questo avviene perché sono gli autori al servizio delle storie, e non viceversa, e la cosa mi ha rincuorato. Con La vita felice è capitato ti chiedessero come fosse possibile che una donna s’immedesimasse in un ragazzo. Hai risposto che quando si scrive si perde ogni connotato personale, anche di genere, e questa affermazione mi riporta allo stesso principio: sei tu, l’autrice, al servizio della storia di Elia e di suo padre, non il contrario.
Esattamente, il punto è questo. Quando si ragiona su un libro si tende a focalizzare l’attenzione su due componenti: l’autore e i personaggi. Si dimentica sempre il terzo attore, cioè il narratore. Che sia uomo, donna, cane o cinghiale (pensa a Meacci), non ha alcuna rilevanza: ogni storia ha un narratore che si presenta ed è la sua storia. Quello che spetta all’autore è semplicemente trascriverla, scegliere da che posizione raccontarla. Non ho mai capito perché ci si stupisca del fatto che uno scrittore scriva una storia narrata da una donna o viceversa. Non bisogna schiacciare la figura del narratore su quella dello scrittore, si rischia di comprimerla. Lo scrittore deve solo trovare le parole giuste per dare voce a quelle di qualcun altro, per esempio di Elia, nel mio caso, e per questo è possibile che DeLillo non si ricordi più i nomi dei suoi personaggi: li ha conosciuti, per un anno si sono incontrati tutti i giorni, poi non più. È passato tanto tempo, si è dimenticato il loro nome e la loro faccia.
Comunque, per tornare al discorso uomo-donna: è curioso che se sei una donna e scegli un personaggio maschile, gli uomini, soprattutto se scrittori, ti danno più rilievo rispetto a una donna che ha a che fare con personaggi femminili. Sembra strano, ma all’improvviso si accorgono di te, parlano del tuo libro, decidono che puoi fare parte anche tu dello spogliatoio.
Ci sono modelli letterari italiani o stranieri di La vita felice? Nel risvolto di copertina si parla di Io non ho paura di Ammaniti e di Settimana bianca di Carrere.
Qualcosa di Ammaniti c’è, e penso anche a Come dio comanda. La settimana bianca è un libro duro che mi ha molto colpita. Spesso hanno accostato certi aspetti di La vita felice alla scrittura di McCarthy o ai racconti di Carver. Eppure, se devo immaginare un riferimento nordamericano, penso soprattutto a Richard Ford. E poi, tornando in Italia, a Goffredo Parise: una delle scritture più icastiche che abbia mai incontrato. Comunque, quando un autore italiano lavora con rigore stilistico si fa troppo spesso riferimento alla letteratura statunitense, come se gli scrittori e le scrittrici italiani fossero necessariamente barocchi o pressappochisti. Invece c’è un rigore estremo nella nostra letteratura del Novecento: pensa ai Sillabari, a Una questione privata di Fenoglio, a Casa d’altri di Silvio D’Arzo. Il rigore è un’eredità che ci portiamo dietro: i racconti di Fenoglio non sono da meno rispetto a quelli di Hemingway. Credo che si tratti di una forma di debolezza non riconoscere questo nostro tratto caratteristico. Voglio dire, se in La vita felice compare un fiume o un torrente, dovrebbe venire in mente la montagna di Silvio D’Arzo, la vecchia che in quel racconto va a lavare i panni al fiume, non solo Stephen King. I miei luoghi sono tutti italiani. C’è una miniera di pirite, un cotonificio: spazi fisici che appartengono al nostro passato e ai nostri territori. Soffriamo di un senso così profondo di dipendenza dalla letteratura nordamericana che ci dimentichiamo dei nostri luoghi, delle nostre province.
Il tuo romanzo precedente, La luce perfetta del giorno, aveva una lingua più densa, la frase era spesso più elaborata, come se la storia, rispetto a La vita felice, dipendesse maggiormente dal linguaggio. In questo romanzo, invece, è il non detto ad avere più valore: conta ciò che è appena evocato, ciò che è omesso, ciò che è soltanto immaginato.
Qualche giorno fa, su Sfide, ho visto una puntata dedicata a Zoff e alla sua carriera. A un certo punto gli viene chiesto: cosa c’era dietro alle tue parate? Zoff risponde: «Io cercavo la semplicità. Avevo l’impressione che più le mie parate fossero state semplici, più mi sarei avvicinato alla perfezione». Ecco, probabilmente dalla mia prima raccolta di racconti a quest’ultimo romanzo, passando per La luce perfetta del giorno, sto mettendo a fuoco un mio personalissimo principio: il tentativo di ridurre tutto all’osso, arrivare al massimo possibile di semplicità, che dal mio punto di vista corrisponde al massimo possibile di complessità. La mia esperienza narrativa è un movimento verso la riduzione, perché ho come l’impressione che soltanto attraverso la scarnificazione sia possibile portare la vita dentro il libro. So che molti autori vanno nella direzione opposta: alla complessità della vita corrisponde per loro la complessità del linguaggio. Per me è il contrario: vorrei arrivare a scrivere un libro che sia ancora più essenziale.
E a proposito di essenzialità, il finale di La vita felice si compone in pochissime frasi, spesso nominali, che cadono sulla pagina come pennellate: brevi ed ellittiche. È un lavorio fine, che ha a che fare con il ritmo e la precisione tecnica, ma risponde soprattutto al tentativo di condensare sulla pagina, in pochissime righe, un significato molto grande.
È proprio quello che desideravo: condensare in poche righe qualcosa che sentivo come necessario e, nello stesso tempo, così difficile da raccontare. Il senso di una vita, i nostri ricordi, il bene che riceviamo nonostante tutto, la possibilità di perdonare. Cosa significa davvero essere felici. Non c’era niente di più importante, allora, che trovare le parole giuste, e solo quelle. Ma è sempre la cosa più importante, in fondo.