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Cinema

“La tartaruga rossa”
di Michael Dudok de Wit

Un capolavoro silenzioso

di Francesco Vannutelli / 28 marzo

Sono stati un corto e un premio Oscar a far incontrare il regista olandese Michael Dudok de Wit e la leggendaria casa di animazione giapponese Studio Ghibli. Il corto è Father and Daughter, che nel 2000 portò a de Wit la statuetta per il miglior cortometraggio animato. È a quel punto che entra in scena Isao Takahata, co-fondatore insieme ad Hayao Miyazaki dello studio, che conosce de Wit e si interessa al suo lavoro. Dopo una produzione durata più di dieci anni, da quell’incontro è nato La tartaruga rossa, intenso lungometraggio di animazione che unisce l’estetica occidentale con la filosofia tipica del cinema dello Studio Ghibli.

Un uomo naufraga su un’isola deserta rimanendo solo con la sua disperazione e il suo ingegno. Cerca di organizzare un modo per tornare alla civiltà costruendo delle zattere che lo portino lontano, ma i suoi tentativi falliscono ogni volta. Troppo piccola la zattera, troppo grande il mare. Quando finalmente sembra essere riuscito a costruire un’imbarcazione abbastanza stabile, una gigantesca tartaruga rossa lo costringe a un nuovo naufragio. Lo scontro con l’animale si trasforma in incontro e in una nuova vita, inaspettata e incredibile.

A Cannes, dove è stato presentato lo scorso maggio, La tartaruga rossa si è aggiudicato il premio speciale della giuria nella sezione Un Certain Regard. Per molti avrebbe potuto benissimo competere nella selezione ufficiale. Sempre per molti, avrebbe dovuto vincere il premio Oscar per il miglior film di animazione al posto di Zootropolis quest’anno.

È un concentrato di poesia in immagini, La tartaruga rossa. Senza neanche un dialogo, accompagnato solo dai versi della fatica, della disperazione e della gioia, il film di de Wit riflette sui temi classici dello Studio Ghibli trovando una nuova lingua nell’incontro con il cinema europeo. La natura è l’unica forza che governa la vita degli uomini, che ne segna il percorso e ne detta i tempi. Il naufrago inizia la sua avventura solitaria per la sopravvivenza in opposizione con la natura, vedendola come un nemico che cerca di eliminarlo. È solo un po’ alla volta, dopo l’incontro con la tartaruga rossa, che capisce l’esigenza della sintesi, il bisogno di abbandonarsi alla natura.

Dudok de Wit affronta il suo primo lungometraggio senza alcun timore, lasciando respirare la storia – minimale nella sua impostazione narrativa – col fiato caldo dell’immaginazione. È una riflessione sulla morte e sul senso della vita, sulla simbiosi naturale dell’uomo con se stesso e con l’ambiente, un manifesto ambientalista in perfetto stile Studio Ghibli. Il lirismo del messaggio si accompagna a una grandiosità tecnica ottenuta con un lavoro di fusione tra le tecniche tradizionali del disegno a mano a carboncino e le tecnologie digitali più avanzate durato anni. Non c’è un fotogramma di La tartaruga rossa che non abbia una potenza evocativa unica.

La tecnica mista del regista olandese crea scenari unici in cui i colori dettano il tempo delle emozioni, dagli immensi azzurri del cielo e del mare ai passaggi monocromo immersi nella notte. Il ciclo della natura si ripete ogni giorno uguale, nella processione di granchi e insetti unici compagni del naufrago, per esplodere nella violenza del naufragio, della tartaruga, dello tsunami che travolge l’isola verso la fine.

Immaginando un posto lontano da ogni realtà e attraversato dalla magia, de Wit ha costruito una poesia in immagini, un film unico, una poesia in immagini e musica che parla dell’uomo, della famiglia e di quel legame profondo e invisibile che lega l’umanità alla natura.

(La tartaruga rossa, di Michael Dudok de Wit, 2016, animazione, 80’)

LA CRITICA - VOTO 8/10

La tartaruga rossa è un film di fusioni: tra animazione digitale e disegno a mano, tra il cinema europeo e la filosofia animata dello Studio Ghibli, tra silenzio e grandezza. Un film unico.