Flanerí

Libri

Dio non ci guarda

“Corri, Coniglio” di John Updike

di Giuseppe Del Core / 4 dicembre

In Corri, Coniglio, a John Updike bastano meno di dieci pagine per tessere un clima di disillusione profonda e pure così pacata. La primissima scena è subito un riflesso vivido di un tempo andato, recente e già così lontano. Alcuni ragazzi giocano a pallacanestro sotto gli occhi pensanti di Harry, “coniglio improbabile” di un metro e novanta, campione al liceo, adesso sposato, invecchiato, intrappolato nei vincoli ordinari della vita adulta. Nonostante abbia ancora ventisei anni, è da un po’ che ha smesso di essere uno di loro. Funziona così per tutti, no? Gli altri crescono e tu invecchi. «I ragazzi continuano a venire al mondo, continuano ad assediarti». Coniglio gioca con i ragazzi, è ancora bravissimo, ma è ormai una voce fuori dal coro. Il distacco che avverte, questo rispetto timoroso e reverenziale che mostriamo a chi è più grande di noi, lo deprime. «Vorrebbe dir loro che non c’è niente di strano nell’invecchiare, non ci vuol niente», e soprattutto Coniglio «conosce la trafila», l’estasi dell’esaltazione giovanile e il declino (quasi) inevitabile che in seguito diventa oblio, e poi, peggio, cancellazione di ogni tributo, di ogni traccia lasciata. Non resta più niente. Quei ragazzi lì intorno «non lo hanno dimenticato; peggio, non hanno mai saputo niente di lui».

Stacco, seconda scena. Ambiente domestico. Sembrerebbe un accogliente rifugio da un’indifferenza così deludente, e invece c’è delusione anche lì, ne è parte, una concausa. «Appena ieri, gli sembra (sua moglie), ha smesso di essere carina».

C’è un contrasto irrisolvibile, nella poetica di Updike, che, complessa, si dipana tra le pagine con assoluta eleganza. È un contrasto tra spirito e materia, tra anima (da non intendersi soltanto in senso cristiano) e corpo. Sempre acceso, naturalmente, resta anche quello tra passato e presente, tra ideale (ma potremmo dire sogno, aspirazione, illusione) e reale. La prosa dell’autore non è propriamente americana, nonostante dell’America il romanzo sia pregno, e ha uno sviluppo più costruito, molto raffinato e ricco di dettagli. Le immagini fotografate o riprese da Updike hanno una fisicità assai vivida, sebbene proprio i corpi più di una volta danno l’idea di essere evanescenti. Per gli uomini quanto per le cose, tutto sembra molto più accessibile quando è solo pensato e diventa incontrollabile – o inesprimibile – quando ci si confronta con il mondo reale. Nel mezzo della sua prima fuga, c’è una scena che in tal senso è particolarmente emblematica e mostra tutta la frustrazione di un mancato controllo e, forse, persino di contatto con questo controverso mondo reale. Harry cerca di capire dove andare, apre una mappa e non ne viene a capo. La strappa. «I nomi si fondono, si dileguano ed egli vede la carta nel suo complesso, una rete, tutte quelle linee rosse e quelle linee azzurre e quelle stelle, una rete nella quale è in qualche modo invischiato».

Proviamo ancora a procedere per scene, in questa continua riproposizione di immagini rievocate e descrizioni bellissime degli alberi e dei cieli, delle luci e delle stelle. Esiste qualcuno bravo quanto Updike nel far ascoltare il silenzio suburbano della notte?

Harry non cerca una fuga romantica, un viaggio senza meta che lo liberi dalle oppressioni delle mondanità e gli consenta un rifugio solitario tra la strada e la natura – e in questo senso il romanzo pare porsi come reazione a On the road, che era uscito appena due anni prima. Questo senso di straniamento («tutte le targhe sono uguali eccetto la sua» o, più esplicito «si domanda: sono estraneo solo a queste persone o all’America tutta?») lo spinge immancabilmente verso un’altra casa, verso un’altra donna da poter amare (ma che significa, poi? ci torneremo). A proposito di contrasti, ce n’è un altro molto importante, soprattutto per la prima parte dell’opera, ed è quello tra visto e percepito (o meglio: tra visione e azione). L’ammirazione ricevuta da Coniglio negli anni della sua gioventù lo ha fatto cadere in un vortice quasi patologico di (auto)voyeurismo – un concetto, questo, difficile da spiegare, ma facilmente individuabile all’interno del libro («Coniglio si sente esaltato nel pensare che un estraneo, passando davanti alla vetrina del ristorante, lo vedrebbe con una donna. Ha l’impressione di essere quell’estraneo, intento a guardare, e invidia a se stesso, il proprio corpo e quello della sua donna».) In molti passaggi, Coniglio non solo è estraneo agli altri, ma lo è anche a se stesso, e quando poi gli capita una (ri)partecipazione alla vita collettiva, avviene in lui una sorta di trasmigrazione dei sensi da lui a loro, e questi divengono quindi misura del suo mondo («se la cosa non preoccupa nessun altro, perché dovrebbe preoccupare lui?»).

L’incontro con Ruth si consuma al termine della serata e Updike ci regala una scena erotica di sbalorditiva accortezza, nei sensi quanto nelle sensazioni, che resta ancora oggi una delle migliori che la Letteratura Americana abbia mai prodotto. In questa unione, forse mancata o forse sfiorata, di corpi e di anime, c’è tutto il desiderio degli esseri umani, di godimento e di piacere, ma anche di sopraffazione e affermazione, e in questo, pure, di superamento di sé. Ma «v’è un che di triste nella cattura» e questa è un’altra delle insoddisfazioni raccolte che ritornano sempre all’io che ha cercato la gioia dell’appagamento e della letizia. C’è un velo di senso di colpa nella prosa di Updike, nelle parole e nelle azioni e nel sesso dei personaggi, negli aiuti egoistici che riportano limiti e mancanze di tutti. C’è Dio sullo sfondo, ma anche questa è un’idea, un concetto che si presta alle modificazioni di ognuno, che si avverte soprattutto quando manca («Pensa a quanto sarebbe stato facile, eppure, nonostante la Sua potenza, Dio non ha fatto nulla»). Dove si nasconde, allora, il Bene? Sembra sfuggire persino ai funzionari della Chiesa (ma quello di Updike non vuole essere – o almeno non ne dà l’impressione – un attacco alla casta, quanto una messa in luce, ancora, delle fragilità di tutti). Ci sono almeno due momenti in cui è proprio il predicatore a ricevere una predica feroce. E la incassa, perché non può che accettare le parole degli uomini come accetta il mistero di Dio – così, nel finale, arriva a una confessione della propria debolezza espressa in poche ma incisive parole: «Se la cosa può farti piacere, non credo in niente».

Questo inesprimibile e sfuggente amore, così intermittente e contraddittorio, spesso sfocia negli impeti del corpo, si risolve in un piacere egoistico e necessario, in un atto, anche questo, talvolta violento e non corrisposto. Il desiderio di uno trova la repulsione dell’altra, ma poi ci sono i doveri, gli obblighi, le intenzioni diverse di ognuno, e ancora l’importanza attribuita a un certo gesto, a una certa azione o anche solo a una parola. Ecco perché, nel finale, i personaggi esplodono e tentano di abbattere il muro spesso delle proprie incomunicabilità. Ma il patetismo di Updike non è mai invasivo (o eccessivo) e si scioglie nelle frasi sbottate o nelle lacrime che si rinuncia a trattenere («Le lacrime le si insinuano tra le dita e i singhiozzi risuonano nell’appartamento. Non li soffoca perché vuole svegliare qualcuno; è stanca di essere sola»).

La storia non può che chiudersi con la dissoluzione di due donne – sono forse inafferrabili, come gli altri, come tutti. C’è stata la colpa, sì, e c’è stata punizione (lo è stata? non lo è stata? comunque sia, difficile non percepirla come tale). Ma c’è tutto il resto, ancora. C’è la vita. Ci saranno altre nascite, altre perdite, altre riconciliazioni, altra gratitudine. C’è tempo abbastanza. Per redimersi. Per smettere di fumare. O per scappare di nuovo.

 

(John Updike, Corri, Coniglio, trad. di Bruno e Federica Oddera, Einaudi Stile Libero Big, 2016, pp. 424, euro 20)