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“L’anno del pensiero magico” e “Da dove vengo” di Joan Didion

di Elisa Carrara / 29 aprile

«La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita. Il problema dell’autocommiserazione». È l’inizio dell’opera più famosa di Joan Didion, L’anno del pensiero magico (il Saggiatore, 2008), quel libro che le restituì la fama e il riconoscimento che desiderava da sempre. Non erano bastati i giorni rigorosi dedicati alla scrittura, cercando un’autorevolezza in quell’America lieve e vaporosa, più impegnata a riempirsi il bicchiere che a interrogarsi sul passato. Per diventare l’ultima diva della cultura americana fu necessario, invece, perdere tutto, mostrarsi fragile, diventare pelle e ossa.

In due anni Joan Didion vide morire il marito John Gregory Dunne e la figlia Quintana. Rimase sola, per la prima volta: senza John a correggerle gli articoli, e senza quella bambina, accolta insieme alla certezza di poter soffocare gli errori che sua madre aveva commesso con lei.

Per sopravvivere al dolore occorre lucidità, come ci ha insegnato Agota Kristof; ma anche abituarsi all’idea che nulla ci appartiene, neppure la terra che calpestiamo. Conformarsi al vuoto, ricordarsi di mangiare, di uscire, persino di respirare: la vita di Joan Didion divenne un susseguirsi di piccole azioni riparatrici. Dei rituali, in grado di dissimulare il ricordo di una vita perfetta. La memoria gioca brutti scherzi: e quando si rimane soli, nelle grandi case di New York, il rischio è quello di cominciare a raccontarsi una storia talmente bella da sostituire la realtà.

Il talento di Joan Didion è tutto qui: nella capacità di arrivare al cuore della questione, di servirsi della scrittura per spogliare le cose, scarnirle e mostrarle nel momento esatto in cui precipitano.

Non è una disposizione connaturata, la sua, ma una dote affinata grazie al dolore e a una certa benestante arrendevolezza.

L’ossessiva ricerca di un minimalismo letterario e ontologico comincia in realtà anni prima, con un altro lutto e un altro libro, complesso e di una lucidità degna di Truman Capote: Da dove vengo (il Saggiatore, 2018) è un’opera che sfugge a qualunque definizione: si presenta sotto le mentite spoglie dell’innocenza autobiografica, in cui, però, la dimensione emotiva sembra svanire, per affondare nello storicismo letterario.

È il 2001: John e Quintana sono ancora vivi ma Joan Didion perde sua madre in un caldo pomeriggio di maggio. L’aveva chiamata il giorno precedente da New York e lei, come sempre, aveva riattaccato prima che la conversazione finisse. Un’abitudine irritante, mutuata da quella mentalità pragmatica e schietta tutta californiana, che aveva finito per indurire i tratti caratteriali e somatici delle donne della sua famiglia. Perché se è vero che la terra non appartiene a nessuno, è altrettanto vero che noi apparteniamo implacabilmente ad essa.

Ma cosa accade quando la nostra terra è viziata da una storia bellissima, ma falsa? Cosa accade a noi, alle nostre vite, al nostro passato? È ciò che cerca di spiegare minuziosamente Joan Didion in questo libro analizzando testi letterari, saggi e articoli.

«Non c’è filosofia in California» scriveva Josiah Royce a William James: ad eccezione della mitologia del ritorno, questa terra è avvelenata da un individualismo sanguigno che il racconto ha trasformato in slancio vitale, in conquista legittima.

«La California resta per me ancora impenetrabile, un faticoso enigma, come per molti di noi che veniamo da lì. Ce ne preoccupiamo, la correggiamo, la sottoponiamo a revisione, cerchiamo invano di definire la nostra relazione con lei e la sua relazione con il resto del paese», scrive la Didion, prima di analizzare il romanzo The Octopus di Frank Norris che indaga i legami sotterranei fra la terra e la costruzione della ferrovia. Lo sguardo a sangue freddo nell’anima fragile del suo paese non può fare a meno di soffermarsi sulla cittadina di Lakewood, un tempo paradiso del dopoguerra e trasformatosi negli anni Novanta in luogo di confine tra normalità ed errore. Lei stessa ne raccontò gli episodi di criminalità e gli scandali provinciali in un reportage apparso sul “New Yorker”: «Quando le cose andavano bene e c’erano i soldi da distribuire, queste città smentivano Marx: riuscivano a far crescere il proletariato e insieme a cooptarlo, chiamandolo borghesia».

Sobborghi cresciuti intorno all’area commerciale e al fondamento della socialità virile: il cittadino modello di Lakewood, ci ricorda la Didion, è un uomo bianco, molto giovane, sportivo, che lavora in fabbrica, anzi si identifica con la fabbrica, paga le tasse e mette da parte i soldi per un futuro migliore. Poi però, un giorno, tutto cambia: e quel mondo che sembrava normale, diventa il segno ostensivo di un intero Paese, fragile e impietoso. Era il 1993: Quintana era ancora viva e John le correggeva gli articoli.

 

 

(Joan Didion, L’anno del pensiero magico, il Saggiatore, pp. 200, € 18,00; Joan Didion, Da dove vengo, Il Saggiatore, pp. 252, € 24,00 | Articolo di Elisa Carrara)