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Dopo

di Alessandro Chiappanuvoli / 9 maggio

a: caserma dei vigili del fuoco,
io spero questa lettera vi trova bene e vi trova di salute e che e una felice sorpresa a voi. scusa non sono bravo a scrivere pero o deciso di scrivere perche voi avete cambiato la mia vita. io sono quello anziano uomo di via don luigi sturzo voi ricordate?
questa lettera e dificile a scrivere io sento. per la mia malattia io sempre ero arrabbiato con dio e tutti e o deciso non doveva dire mai grazie a nessuno come se era la colpa di loro. io mai o sentito una canzone un tuono un ucello cantare la voce di persona io mai o gridato fisciato cantato o detto ti amo a nessuno. Pure a la mia moglie che pure lei e sorda.
quando o conosciuto la mia moglie era 63. io per 46 anni non o detto ti amo mai a la mia moglie. questo con lingua dei segni noi parliamo. pensava sempre che nostro non era amore che noi stiamo insieme perforza perche abbiamo stessa maledizione.
io aveva rabbia perche altri non sanno come e stare la vita in tutto silenzio. non sa come e non sentire e mai possono sapere come vedere la casa cadere senza rumore e tu non gridi e resta tutto dentro. la colpa non e di altri e la colpa non e pure a dio lo so. la mia moglie dice sempre io ero arrabbiato con dio e con lei. io bevevo prima. o vergogna oggi. non so se gente capiva. la mia moglie pero si capiva.
la mia moglie aiutava a me prima pero con tempo io diventavo piu cattivo e quando lei guardava me io aveva piu rabbia e io picchiava lei. lei guardava in silenzio ma io capisce oggi che era un uomo cattivo perche teneva la mia moglie in silenzio piu di silenzio di nostra malattia.
io non bevo niente da quello giorno che voi aiutava a noi. sono felice perche o fatto pace con dio lui e con me. non o piu paura. oggi e felice e vuole dire ti amo a la moglie.
tanto tempo e tante persone a aiutato a me di trovare voi. oggi io e la mia moglie stiamo a un map lontano da la nostra casa che non ce piu. tanto tempo per trovare voi ma piu tempo per me di scrivere questa lettera. non e facile pero io vuole dire solo grande grazie a voi.
perche voi siete angeli. voi siete angeli veri di tutti noi. i angeli di dio.
con il cuore mio per sempre grazie angeli miei grazie.

Controluce tutto sembrava normale, i contorni lineari, ma bastava voltare lo sguardo perché la città mostrasse le sue ferite: il turbinio degli elicotteri scuoteva l’aria, fracassava i timpani, si aggiungeva alle sirene spiegate dei mezzi di soccorso. Il resto dello spettro acustico era occupato dal vocio che veniva dalla strada.
La luce finiva leggera negli occhi, portava con sé la tempra dei mesi autunnali e la pace di quelli estivi. Era insolitamente caldo per il periodo, un caldo che di lì a poco avrebbe fiaccato i movimenti, ci avrebbe resi abulici, dipendenti dall’adrenalina e infine ci avrebbe lasciati aggrappati alla sola forza di volontà. Ma la terra era friabile e la pietra asciutta, e questo avrebbe facilitato il nostro lavoro. Sotto le macerie, però, l’ossigeno, la polvere e i gas si stavano già mescolando, trasformando la speranza in un estenuante conto alla rovescia.
Avevo ripreso servizio da più di quattro ore, dopo una di riposo. Altri colleghi invece erano arrivati senza staccare. Tolto l’elmetto, mi tamponai il sudore.
Con un balzo fui di nuovo sul cestello dell’autoscala. Guardai in basso, la piccola strada era ormai invasa da carabinieri, poliziotti, unità cinofile, volontari della Protezione Civile, forestali, giornalisti. C’erano anche i civili, più simili a fantasmi che a persone, appollaiati qua e là, a terra, sulle auto. Quasi nessuno riusciva a stare in piedi e quei pochi dovevano sostenersi gli uni con gli altri. Davanti a loro c’erano i brandelli delle loro esistenze: valigie, vestiti, scarpe, buste della spesa, lampade, sedie, coperte, mobili, suppellettili di ogni genere. Attendevano, non potevano far altro. Si sudava e il sudore si mischiava alla polvere.
L’autoscala Magirus, sprigionando un forte odore di frizione bruciata, si muoveva lentamente. La mia squadra era un’unità di appoggio addetta alla perlustrazione degli edifici pericolanti e al recupero di eventuali civili presenti: in realtà cercavamo cadaveri. Alla guida, il collega sembrava più un chirurgo che un autista, capace di destreggiarsi con un camion di nove metri come fosse una Smart, nonostante i crampi al polpaccio sinistro. Ai piedi della scala reclinabile, il manovratore mi catapultava da un palazzo all’altro tra balconi, finestre e mura sfondate. Intorno al Magirus si muoveva la cosiddetta ‘fanteria’, un caposquadra e due di noi, completamente coperti di polvere. Il mio compito era di ispezionare gli appartamenti ai piani alti e rilevare presenze. Nessun recupero fino allora, ma gli edifici da perlustrare erano molti.
Sulla città aleggiava una coltre di pulviscolo giallo, al passaggio degli elicotteri si creavano vortici simili a tempeste di sabbia. L’abside sfondata di una chiesa e la cupola spaccata di un’altra rivelavano i loro interni come fossero corpi nudi. In lontananza vedevo altri Vigili del Fuoco su tetti, balconi, alle finestre, dentro le mura sfondate; le pareti sventrate dei palazzi mostravano intimità, guardarle m’imbarazzava.
Dove non riuscivo a ispezionare arrivavano le mie grida. Penetravano nelle crepe polverose, riecheggiavano in salotti sgangherati, cucine franate, camere da letto violate, bagni esplosi. Non una voce, non un lamento, l’unico rumore era la vibrazione cadenzata del ferro in tensione costretto dal peso disarticolato del palazzo, come un lamento.
«Libero. Ripeto. Edificio libero. Passo» dissi, disegnando cerchi nell’aria con le braccia.
Ordinai la discesa e l’ingranaggio della scala si attivò, i pioli iniziarono a sovrapporsi lentamente avvicinandomi al terreno. Mi poggiai con la schiena al passamano e l’acciaio dei moschettoni cozzò contro la lamiera.
L’ammasso di corpi nella strada si fece sempre più nitido, via via ne distinguevo i dettagli, le bocche spalancate, il sudore rappreso, il rossore dei visi, le lacrime, i singhiozzi, il tepore dei respiri: una platea assorta, straziata oppure operosa, ansimante; un misto di speranza e disperazione, di preghiere e di bestemmie. Le macerie esplose dagli edifici sembravano schizzi di sangue. Alcune vetture erano rimaste schiacciate. Briciole di cemento, mozziconi di pilastri, schegge di tegole, di forati, persino ringhiere di qualche balcone disegnavano una specie di mappa. Potevo intuire dove le cose erano andate per il verso giusto e dove c’erano stati feriti, oppure morti.
Un piccolo escavatore si faceva largo tra i resti di due palazzi, una ventina di metri più in là. Grattava via i detriti con delicatezza. Le antenne erano rimaste quasi tutte dritte, i comignoli invece erano crollati. Due cani, seguiti dai rispettivi operatori, ci camminavano sopra, la testa china e il muso infilato tra le zampe anteriori. Tra gli infiniti odori umani compressi lì sotto, cercavano quelli più intensi, in una corsa contro il tempo: ogni minuto riduceva drasticamente le possibilità di trovare superstiti.

L’ingranaggio della scala si attivò di nuovo e i pioli iniziarono a distanziarsi per allontanarmi ancora dal terreno. C’eravamo spostati davanti a un edificio beige, con tapparelle marroni dentro riquadri bianchi; davano l’impressione di trovarsi davanti alle caselle del gioco del tris. Tra il cemento armato e le mura le crepe erano profonde; qualche casella non aveva retto e si era sfracellata al suolo aprendo squarci domestici. Sintonizzai la Puma sul canale nazionale.
«Altre due salme trovate…» biascicò una voce «sono due giovani. Il numero totale sale a…»
Tornai subito sul canale diretto.
Arredamento antiquato: un divano logoro rivolto verso un televisore a valvole, merletti ovunque, al centro del soffitto un lampadario a sette braccia da cui pendevano miriadi di gocce di cristallo, i ripiani della libreria pieni di enciclopedie mai usate. Attesi prima di entrare, il mio sguardo fu catturato dal verde intenso di una collina su cui si ergevano alcune antenne radiotelevisive. Le nuvole sembravano impigliarcisi, invece erano molto più alte. Le montagne lontane avevano ancora le cime orlate di neve. Inspirai a pieni polmoni prima di saltare dentro passando dal muro sfondato. Dopo il salone, entrai in cucina, in bagno; il resto dell’appartamento era scarno, arredato in modo casuale. Era una casa di studenti, me ne resi conto dalle camere. Libri sparsi ovunque, appunti, penne, foto e poster appesi alle pareti, bottiglie vuote fracassate a terra.
Ispezionai, piano per piano, ogni appartamento, forzando gli avvolgibili delle finestre. Qui abita una famiglia con tre figli, qui una coppia di mezz’età, qui una coppia con una bimba piccola, pensavo. Gridare mi sembrava inutile ma lo facevo: c’è qualcuno?, mi sentite? Entravo nelle vite altrui e camminavo tra le loro cose in punta di piedi. I letti erano disfatti, il primo cassetto del comò in camera da letto era sempre aperto, i portagioie vuoti, gettati qua e là vestiti spiegazzati, a terra una baraonda di oggetti rotti, chincaglierie miste a calcinacci, vetri. Non un rumore a parte lo scricchiolio dei miei passi, non una voce. E ovunque crepe, squarci, buchi, tramezzi crollati.
«Libero. Passo» dicevo prima di tornare nel cestello.
Completai l’intera facciata che dava sulla strada, poi, dalle finestre laterali, anche quella opposta. Dietro la prima palazzina, altre due file di quattro piani scendevano incassate lungo il dorso della vallata. Avremmo dovuto perlustrare anche quelle.
«Edificio sgombro. Interrogativo» gracchiò la ricetrasmittente.
«Affermativo. Passo».
«Occappa, Giorgio. Ti tiriamo giù».
I pioli riniziarono a sovrapporsi. Guardai in basso e scorsi la squadra di terra allontanarsi dall’edificio e mescolarsi con la gente in strada. Il ronzio delle voci mi ridestò. Ero stanco. Dovetti voltarmi per concedermi ancora qualche attimo di calma. Allora vidi una specie di scintillio, un movimento impercettibile di fronte a me nel varco buio di una parete completamente sfondata al terzo piano di un edificio della seconda fila.
«Alt! Passo» gridai nella Puma.
La scala si fermò.
«Prendo i comandi. Ripeto. Prendo i comandi. Passo».
Sorvolando un boschetto di pioppi da cui saliva umidità, mi avvicinai lentamente al buco. La parete dell’appartamento era crollata verso l’esterno e aveva investito la ringhiera che ora restava appesa nel vuoto assieme a pochi indumenti ingialliti.
«C’è qualcuno?» gridai con le mani attorno alla bocca.
Nessuna risposta.
Sganciai il moschettone e mi accostai alla paratia. Una folata di vento sfrangiò le cime degli alberi e m’investì facendomi gelare il sangue. Con un balzo atterrai sul balcone senza toccare la ringhiera.
La carta da parati, bombata in più punti, se ne stava appiccicata ai muri controvoglia. In alto, negli angoli, c’erano macchie di umidità. Un grosso armadio di mogano si era staccato di almeno due palmi dalla parete; nello specchio dell’anta spalancata si rifletteva la mia immagine. Una palla di vetro rosa faceva da lampadario. Sulla spalliera c’era un quadro della Vergine cinto da un lungo rosario fluorescente. Ai lati del letto disfatto, davanti ai comodini, c’erano due paia di ciabatte logore. Le piastrelle del pavimento erano verdi, screziate di pietruzze bianche. Oltre un vecchio tappeto rosso scarlatto, quattro occhi sbarrati mi stavano fissando. Erano due anziani, un uomo e una donna. Stavano immobili sotto il letto e mi guardavano.
«Presto!» dissi «Venite fuori!»
Non si mossero, continuavano solo a fissarmi.
Mi avvicinai con cautela, sotto i piedi scoppiettavano vetri, frammenti. Quando fui vicino, mi chinai e gli tesi il braccio. Solo allora i loro occhi liquidi si mossero, spostandosi sulla mia mano. Li tirai fuori continuando a parlare, ma le parole sembravano attraversarli. Li condussi sul balcone, tenendoli sottobraccio, in un silenzio irreale. Facevo gesti eloquenti che loro seguivano, senza ribattere. Per farli entrare nel cestello dovetti prenderli in braccio uno alla volta sporgendomi molto oltre la ringhiera. Si aggrapparono come bambini.
Quando i pioli iniziarono a sovrapporsi avvicinandoci al terreno, con un movimento lentissimo e delicato la donna mi prese il viso tra le mani. I suoi capelli bianchi fluttuavano nel vento come ragnatele. Prima si sfiorò le labbra, poi si coprì le orecchie e con il capo fece cenno di no. Mentre il brusio dalla strada tornava a crescere, ci abbracciammo.

 

“Dopo” è tratto da Sopra e sotto la polvere – Tutte le tracce del terremoto di Alessandro Chiappanuvoli, in uscita il 16 maggio per effequ.

 

Alessandro Chiappanuvoli (L’Aquila, 1981) dal 2016 si occupa di terremoti per Internazionale. Ha pubblicato Lacrime di poveri Christi – Terzigno: cronache dal fondo del Vesuvio (Arkhè, 2011), un reportage narrativo sullo scandalo rifiuti in Campania, e la silloge di poesia golgota (Zona, 2013). Suoi scritti e articoli sono apparsi su Stella d’Italia. A piedi per ricucire il Paese (Mondadori, 2013), Il Manifesto, Il Messaggero, Effe – Periodico di altre narratività; e sui blog Nazione Indiana, Il Primo Amore, Doppiozero e altri.

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