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Libri

Spiare o essere spiati, questo è il problema

“Kentuki” di Samanta Schweblin

di Martin Hofer / 16 dicembre

Negli ultimi anni, la convergenza tra narrazione distopica e osservazione della realtà risulta sempre più evidente, come se la tecnologia avesse compiuto un balzo talmente improvviso da acciuffare persino le più visionarie tra le inquietudini partorite dall’immaginario fantascientifico.

E così ecco che per scrittori, registi e sceneggiatori diventa difficile prevedere, anticipare o profetizzare il male del futuro; la distopia si trova a rincorrere con un certo affanno il presente, il più delle volte a commentarlo e, nel migliore dei casi, a stargli davanti di pochi passi. In Kentuki (Sur, 2019), Samanta Schweblin ha il merito di intuire questa difficoltà e di costruire, a partire da un’intuizione vagamente futuristica, una storia con i piedi ben piantati nell’attualità.

Tra le voci in ascesa della letteratura argentina, seppur residente da alcuni anni a Berlino, Schweblin è, al pari di Mariana Enriquez, l’esponente principale del racconto weird sudamericano. Kentuki arriva in Italia dopo La pesante valigia di Benavides (Fazi, 2010) e Distanza di sicurezza (Rizzoli, 2017) sotto forma di raccolta mascherata da romanzo.

A unire le numerose vicende che popolano le pagine di questo libro sono soltanto loro, i kentuki, animaletti di peluche a rotelle che potrebbero ricordare i tamagotchi, se non fosse per un piccolo dettaglio: sono manovrati da essere umani. Il padrone di un kentuki accetta quindi di essere osservato da un’altra persona di cui non conosce l’identità e, al tempo stesso, beneficia del privilegio di poter esercitare il proprio potere su una “cosa animata” che non è in grado di parlare e che necessita di essere ricaricata per non perdere la propria “vita virtuale” perché, una volta disconnesso, non si torna indietro, e il kentuki è perso per sempre.

Le ragioni per le quali si sceglie di essere padrone o peluche sono molteplici: Marvin vorrebbe toccare per la prima volta la neve dalla sua cameretta di Antigua; Emilia ha ricevuto una connessione in regalo da un figlio lontano desideroso di ripulirsi la coscienza; Enzo è costretto a comprare un topo-kentuki per il figlio su suggerimento della psicologa e della ex moglie; Grigor vorrebbe avviare un business di “connessioni predisposte”; Alina ha bisogno di compagnia.

Queste sono soltanto le cinque linee narrative principali, interrotte di frequente da altri racconti, brevi o brevissimi e autoconclusivi. In ogni situazione, a prevalere è uno sconfortante senso di solitudine e un desiderio disperato di voler entrare in contatto con gli altri attraverso nuove modalità di comunicazione, a metà strada tra le chat e il tipo di attenzioni che si riserverebbero a un animale domestico.

«Senza email né messaggi né metodi di comunicazione concordati il suo kentuki non era altro che un animaletto da compagnia sciocco e noioso, tanto che a volte lei si dimenticava perfino che era lì, e che dietro il Colonnello Sanders c’era una videocamera e qualcuno che guardava».

Ma cosa accade quando una persona realizza di trovarsi al cospetto di un peluche “umanizzato”? Schweblin passa in rassegna con cura sociologica tutte le combinazioni possibili generate da questa strana interazione, dalle psicosi («Sono pedofili. Tutti. È venuto fuori adesso. Ci sono centinaia di casi», pag. 124) alle concrete minacce in materia di privacy («Quella persona, chiunque fosse, poteva scattare fotografie, poteva fare un video allo schermo, poteva masturbarsi dentro un corvo di plastica pelosa», pag. 115), passando per interrogativi etici come la violenza sui kentuki e i movimenti che, al contrario, ne promuovono la liberazione.

Alcuni dei personaggi riescono ad affrancarsi dalla tentazione di spiare o essere spiati, altri riescono persino a innamorarsi, ma il quadro tracciato da Samanta Schweblin è perlopiù inquietante. L’unica via di uscita sembra essere quella di staccare la spina e tornare alla realtà, una realtà che può essere altrettanto incerta, ma che, almeno, è autenticamente vissuta e spoglia di simulacri, come sottolineato in un passaggio significativo del romanzo:

«Non voleva più vedere sconosciuti mangiare e russare, non voleva più vedere un solo pulcino gridare di terrore mentre gli altri lo spiumavano isterici, non voleva più spostare nessuno da un inferno all’altro».

 

(Samanta Schweblin, Kentuki, trad. di Maria Nicola, Sur, 2019, pp. 200, euro 16,50, articolo di Martin Hofer)

LA CRITICA - VOTO 7/10

I kentuki di Samanta Schweblin inquietano e mettono in guardia dalle possibili derive delle relazioni interpersonali di un futuro molto più vicino di quanto si tenda a immaginare.