Flanerí

Libri

L’ombra di Beckett
in “La parabola dei ciechi”
di Gert Hofmann

Torna in libreria il romanzo breve dello scrittore tedesco

di Claudia Cautillo / 29 febbraio

«Signor Barthelme, perché scrive nel modo in cui scrive?», chiede uno studente della Johns Hopkins University di Baltimora. «Perché nel modo in cui scrive Beckett, già scrive Beckett», risponde prontamente lo scrittore americano. Parafrasando questo significativo scambio di battute, viene da chiedersi come mai una domanda simile non se la sia posta, riguardo a se stesso, anche il drammaturgo tedesco Gert Hofmann (1931-1993), quando nel 1985 pubblicò il racconto lungo La parabola dei ciechi, ripubblicato recentemente da Racconti edizioni (2019). Infatti ogni cosa, in questa storia ispirata all’omonimo dipinto del 1568 di Pieter Bruegel il Vecchio, che a sua volta si rifà al noto episodio del Vangelo di Matteo, pare presa a prestito dall’universo immaginifico, inquietante e profondamente amaro di Samuel Beckett, quasi ne fosse una sintesi o, per meglio dire, una sorta di appassionato collage.

Non c’è neanche bisogno di sapere che l’esperienza teatrale più importante della vita di Hofmann – peraltro vincitore di numerosi premi, tra i quali l’Alfred Döblin Preis e l’Ingeborg Bachmann Preis — sia stata assistere, nella Parigi del 1953, alla prima di Aspettando Godot. La sua influenza è così palese nella Parabola che si avverte immediatamente, fin dalle prime pagine: l’attesa angosciante, il patetico girovagare in tondo come sospesi in un tempo cristallizzato, il congelamento dell’azione, l’orizzonte disatteso, il tono da tragicommedia.

Debitore dell’andamento tipico del teatro dell’assurdo, con i suoi periodi senza senso, reiterativi e serrati — quali la ripetizione costante di parole all’interno di una stessa frase: «Più tardi probabilmente usciamo dal villaggio, che probabilmente si chiama Pede-Sainte-Anne» e lo schema cantilenante e ossessivo dei dialoghi: «No?». «No». «Bene, dice, allora non ne vedo. Allora probabilmente vedo…». «Sì?». «Che cosa dovrei vedere?, chiede». «Uno stagno, gridiamo». «Uno stagno?». «Sì, uno stagno», ecc. – il testo della Parabola non offre però una propria voce originale e autentica che lo giustifichi, differenziandolo rispetto a Jarry, Ionesco, Pinter o allo stesso premio Nobel irlandese.

Sicuramente molto ben confezionato, questo romanzo breve manca però del respiro del grande autore. È piuttosto un pastiche, la perfetta imitazione di stili, linguaggi e tematiche altrui. Come in Aspettando Godot, anche qui il protagonista è assente, tanto che non si è certi a quale dei personaggi appartenga la voce narrante, persa in un plurale maiestatis in cui ogni personalità è annullata; i ciechi difatti sono solo un insieme di cui non si sa con esattezza nemmeno il numero, che a volte sembra composto da cinque, altre ancora da sei membri. Alcuni di loro non hanno un nome, mentre altri personaggi si chiamano Chi-ha-bussato, il Bambino, la Serva, il Giardiniere, il Pittore, ecc. così come per esempio i personaggi beckettiani di Cosa dove hanno per nomi: Bim, Bum Bam, Bem e Bom. In maniera analoga, l’atmosfera surreale vissuta da Vladimiro ed Estragone, che si ripete ciclicamente nel primo e nel secondo atto, cristallizzando la pièce in un tempo astratto in cui non accade nulla, è la stessa dei verbi eternamente al presente della Parabola, in cui il gruppo dei ciechi – a cui fa riscontro un proprio doppio, venuto prima di loro, che dice di essere loro ma non lo è – vaga in tondo in una trama priva di eventi che si conclude tornando al punto di partenza, nello stesso modo in cui era iniziata.

Ma, se dei racconti e romanzi di Beckett è stato detto come fossero “illeggibili e impubblicabili”, la Parabola non è nemmeno questo. Non possiede l’originale assurdità del protagonista di Watt, che compare nella trama senza spiegazione e senza spiegazione ne esce, o la graffiante ironia del mondo oscuro di Murphy le cui ceneri, come da sempre sognava, non finiscono neppure nel gabinetto del teatro ma cadono a terra, e vengono spazzate via insieme alle cicche. È invece una favola crudele, una fin troppo ragionata e ben eseguita metafora dell’Occidente e dell’arte, in cui l’urlo dei ciechi che cadono nella fossa è trasparente, diretta, classica immagine della cecità e ingiustizia del cosmo.

Questo agghiacciante quadro del senso della vita ha in sostanza mancato la possibilità di presentarsi, a oltre cinquant’anni da La nausea di Sartre e a più di trenta da Aspettando Godot, con quel quid in più che lo rendesse nuovo, inedito, audace, per non dire d’avanguardia. Tra le sue pagine ben eseguite, in cui il lavoro di sottrazione del linguaggio e la costruzione sintattica minimale rafforzano e simbolizzano la dimensione claustrofobica della narrazione: «No, grida lui, che cosa?». «Verrai dipinto». «Lo so». «E perché verrai dipinto?». «Non lo so». «Nemmeno noi, diciamo». «Rubi ancora?». «Come, chiede, manca qualcosa?». «Non ancora, diciamo, non ancora» ecc., non si può fare a meno di sentire quanto, gigantesca e unica, sia la personalità di Beckett ad emergere, non quella di Hofmann.

 

(Gert Hofmann, La parabola dei ciechi, trad. di Tiziana Prina, Racconti edizioni, pp. 144, euro 14, articolo di Claudia Cautillo)