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Dark, o dell’inutilità irreversibile del tempo

A proposito della serie Netflix

di Francesco Vannutelli / 10 luglio

Il 27 giugno 2020 è tornata su Netflix Dark, la serie tv tedesca ideata da Baran bo Odar di grande successo giunta alla sua terza e ultima stagione. Un finale faticoso, sbrigativo e tutt’altro che soddisfacente.

Parlare di Dark senza rivelare troppo della trama è complicato. Ci limitiamo a dire che la storia si apre a Winden, immaginaria cittadina tedesca con annessa centrale nucleare. Lì, nel 2019, avvengono tre fatti che sconvolgono gli equilibri di quattro famiglie: Michael Kahnwald si impicca lasciando alla moglie e al figlio adolescente Jonas una lettera, da aprire alle 22:13 del 4 novembre; spariscono due ragazzini nel nulla; viene ritrovato il corpo di un terzo bambino vestito con abiti anni Ottanta.

Questa serie di eventi è il preludio a una danza di viaggi indietro nel tempo nel 1986 e nel 1953 destinato a espandersi nella seconda stagione fino al 1921 e al 2052 e a un’infinità di altre linee temporali nella stagione conclusiva.

Le ragioni del successo di una serie come Dark sono da ricercare soprattutto nella passione di ampie porzioni del pubblico internazionale per le vicende complicate. Il viaggio nel tempo è un materiale narrativo di grande fascino, sia quando è trattato in chiave pop come nella saga di Ritorno al futuro sia quando si basa su presupposti più o meno scientifici in film come InterstellarArrival.

La serie firmata da Baran bo Odar ha molti elementi in grado di catturare l’attenzione degli spettatori. Prima di tutto è realizzata molto bene dal punto di vista tecnico, con un ottimo casting e una ricostruzione assolutamente credibile delle varie epoche storiche che attraversa. Nella scrittura, poi, ha la furbizia di unire il fascino della scienza con l’inquietante dubbio del trascendente, le vicende sentimentali con complottismo e società segrete.

Dark è un prodotto estremamente suggestivo, con un’atmosfera e un ritmo tesi che non risparmiano colpi di scena e momenti spiazzanti per il pubblico. Peccato, però, che non sia in grado di reggere alle sue stesse premesse.

Le tre stagioni si basano su un meccanismo di accumulo narrativo che anziché fornire spiegazioni aumenta i dubbi. La prima annata si conclude con la rivelazione di un futuro in cui viaggiare. La seconda aggiunge un’ulteriore linea narrativa nel 1921. La terza va fuori scala con sempre più epoche da visitare e addirittura mondi paralleli.

Nelle prime due stagioni a tenere incollato lo spettatore era la curiosità di capire in che modo la possibilità del viaggio del tempo determinasse il destino di tutti i personaggi (tanti, troppi, per lo più superflui) che compaiono. Arrivato al terzo anno, Dark non si preoccupa di fornire risposte ma si limita a scombinare  gli elementi con una vagonata di nuove informazioni che servono solo a condurre il pubblico verso un finale deludente e incompleto.

L’andamento ciclico dei viaggi del tempo e l’insistenza sul concetto di ripetizione («il principio è la fine e la fine è il principio») finiscono per sviluppare un loop narrativo in cui le vicende si ripetono stancamente uguali a loro stesse.

Vi basta andare sulla pagina Wikipedia di Dark per leggere che la vicenda si regge su due postulati di fisica teoretica applicati ai viaggi del tempo: il principio di autoconsistenza di Novikov e il paradosso della predestinazioni. Due teorie già alla base di numerosi romanzi e film di fantascienza. Baran bo Odar sembra che sia finito prigioniero delle stesse premesse su cui aveva deciso di fondare  la serie. Incastrato nel loop narrativo che aveva creato ha cercato di aggiungere sempre più elementi alla ricerca di una via di uscita. Ma non c’è riuscito.

(Dark, di Baran bo Odar, 2017-2020, tre stagioni su Netflix)