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Libri

Di tutti e di nessuno

A proposito di “Due vite” di Emanuele Trevi

di Giuseppe Del Core / 30 luglio

È particolare e significativa, la scelta compiuta da Trevi nel primo approccio al racconto, quella cioè di iniziarlo partendo da un ricordo preciso che ruota attorno a L’origine del mondo. Una scelta che assume maggiore valenza, in termini di estetica e di significato, se si considera del libro la sua chiusura, che ritorna, specularmente, sullo stesso quadro – all’inizio legato a lui, Rocco Carbone, e alla fine in relazione a lei, Pia Pera. Una scelta, questa, che ha una finalità doppia e ugualmente importante nella concezione di Due vite (Neri Pozza, 2020): allacciare una vita all’altra – quella di Rocco e quella di Pia – e insieme creare una connessione immediata fra Vita e Arte. Ed è quasi come se il quadro di Courbet partorisse i fantasmi dei due amici e lo facesse donando a Trevi, il padre di questa storia, un ammonimento che egli senz’altro ha raccolto: l’assenza della retorica.

Questa «suprema libertà» di Courbet, come Trevi la definisce, spesso finisce per essere troppo sconfinata per essere gestita da tutti. Gli artisti che intendono celebrare la vita, allora, finiscono per appiattirla. Perché questo è qualcosa che ogni artista di talento non cessa di tenere a mente: se anche l’elogio alla vita avviene per mezzo dell’arte, l’una e l’altra – la vita e l’arte – conservano le proprie distinzioni pur nella loro interdipendenza. Quando la sovrapposizione produce offuscamento, si perde insieme il senso dell’arte e della vita. E Trevi conduce invece un percorso limpido in questi termini, servendosi dell’arte come strumento d’indagine e come mezzo di rievocazione. Questa rievocazione è anche un processo tutto personale, eppure al servizio del lettore, che l’autore compie e che mira a una rielaborazione di un vissuto intrecciato a un altro – a più di un altro – e all’analisi di due vite che, prima di essere state votate all’arte e a essa ricondotte, sono appartenute a un uomo e a una donna nel modo genuino e irripetibile in cui ogni vita si consuma. E ogni critica, da parte di Trevi, è riservata all’arte e mai alla vita – e per critica s’intende tentativo di comprensione, un discorso intorno, condotto con la spontaneità di chi ha rinunciato alla pedanteria dell’esegesi e intende muoversi come se stesse parlando di un amico a un altro amico.

Quello che diventa fondamentale, in un progetto come questo, è che il libro non si trasformi in un pretesto per parlare delle proprie idee – e non per una questione morale secondo cui non ci si dovrebbe “servire” delle vite degli altri, ma, ancora una volta, per una ragione estetica. Ma è anche vero che nessuna biografia, che voglia conservare un interesse assoluto e non relativo, può permettersi di essere semplicemente il ricordo di una vita. Occorre per cui condurre un discorso che sia capace di versarsi in contenitori più ampi, nell’estensione di un ragionamento che produce pensiero, parole, riflessione intorno a qualcosa di collaterale al soggetto. E quest’obiettivo Trevi lo centra senza troppi affanni, attraverso la flessibilità di una voce che non teme di filosofare, e pure mantiene il giusto tono che evita di pontificare e si modula in una nettezza che è figlia esclusiva della consapevolezza meditata, senza risultare spigolosa.

C’è quindi da aggiungere, per ricollegarsi al punto di prima, che le biografie comportano dei rischi specifici che non appartengono alla narrativa pura (e ovviamente è possibile fare il discorso inverso). Al di là dell’interesse per le vite raccontate che l’autore può riuscire a suscitare nel lettore, è necessario spesso lavorare per sottrazione. Innanzitutto si concede all’oggetto narrato – la vita di un altro – una priorità rispetto a se stessi, per cui si finisce col rendere l’oggetto il soggetto della storia, relegando il nostro ruolo a quello di una voce – uno strumento, appunto – attraverso cui questo soggetto (ri)prende vita. Questa operazione risulta spesso ardua a molti scrittori, proprio perché questi, in quanto scrittori, fanno inevitabilmente fatica a comprimere il proprio ego. Ma non si tratta neanche di una questione di vanità, quanto dell’impostazione richiesta dalla scrittura. È senz’altro più facile ridimensionare la propria presenza in favore di un personaggio di fantasia che noi stessi abbiamo creato; diverso è fare lo stesso con le persone che abbiamo conosciuto. Un processo che passa anche dalla dimensione che si intende dare a questo rapporto (autore – soggetto raccontato). Non si tratta di un annullamento: è una questione di spazio, di equilibrio fra le parti, di senso della misura.

Nella reminiscenza episodica che va a comporre il quadro (alluso, dedotto) più generale di due vite, il ruolo che l’autore ha avuto all’interno di queste non può essere dimenticato. Ma il distanziamento emotivo, a cui la scrittura può più facilmente andare incontro, è necessario alla riuscita e alla credibilità del progetto. Il testo di Trevi non è mai agiografico, e questo è uno dei pregi più preziosi che si possano trovare in una biografia. Il ritratto delle due vite risulta essere spontaneo, senza nemmeno quel tentativo di bilanciamento tra vizi e virtù che miri a difendere l’attendibilità dell’opera. Ed è stato eluso ogni atteggiamento pietista associabile all’amico fedele e devoto, così come Trevi ha evitato di pervadere il racconto di un senso di colpa che, a un certo punto, avremmo temuto di trovare. Ancora una volta questo senso della misura, filtrato da una voce che schiva la commozione del cordoglio e suona di sincero affetto, consegna al ricordo una grazia puntuale, che consente al libro una dimensione più universale e concede agli amici un bellissimo commiato che commuove anche chi non ha avuto modo di conoscerli.

 

(Emanuele Trevi, Due vite, Neri Pozza, 2020, 131 pp., euro 12,50, articolo di Giuseppe Del Core)