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Luchino Visconti: la letteratura vista dal cinema

“Senso” di Camillo Boito e “Morte a Venezia” di Thomas Mann negli omonimi film

di Claudia Cautillo / 14 ottobre

Terra e acqua, Oriente e Occidente, mondo di maschere e duplicità, Venezia è il luogo non-luogo, sfumato e imprevedibile, in cui si incontrano e fondono gli estremi opposti della vita e della morte. Luchino Visconti, da sempre attratto dall’enigmatica natura della città lagunare, traspone su schermo due storie che vi sono ambientate: nel 1954 la novella Senso (1883) di Camillo Boito, autore di spicco della Scapigliatura milanese, e nel 1971 La morte a Venezia (1912) di Thomas Mann, tra i racconti lunghi più significativi della letteratura europea del Novecento. Di fatto gli omonimi film del regista ferrarese, poeta e critico della decadenza, sono entrambi dominati dal tentativo di superare la contraddizione tra malattia – come condizione sommamente umana, direbbe il Naphta de La montagna incantata – e sublimità dell’arte; tra il concetto nietzschiano di “simpatia con la morte” e tensione estrema verso la vita e le sue passioni, che nella multiforme ambiguità di Venezia trovano la loro estrema sintesi.

Rapporto antinomico proprio della personalità stessa del “Conte rosso” che, al contempo aristocratico e comunista, innovatore e conservatore, realista e decadente, con Senso si propone – nell’intenzione di attrarre un pubblico internazionale – di unire i poli apparentemente inconciliabili di estrema spettacolarità e alto livello artistico. Il risultato sarà, come riportò già la rivista Cinema durante la preparazione del film, «il più notevole sforzo finanziario e organizzativo compiuto durante l’anno nel quadro della produzione cinematografica italiana», da una parte diviso tra censure e feroci ostilità della critica, dall’altra da notevole successo di pubblico e incassi.

Il soggetto nacque da un’idea di Suso Cecchi D’Amico, che aveva letto la novella di Boito nella piccola raccolta Il maestro del Setticlavio curata da Giorgio Bassani, il quale parteciperà a una delle complesse fasi di lavorazione della sceneggiatura; accuratissimo lavoro che si avvarrà della consulenza storica di Carlo Alianello, capostipite del revisionismo del Risorgimento, del contributo del drammaturgo e critico teatrale Giorgio Prosperi e della traduzione inglese dei dialoghi a cura di Tennessee Williams. Il film, che sembra alludere al passaggio dell’opera di Visconti dal neorealismo al realismo, nelle elaborazioni dal trattamento alle successive stesure via via supera la dimensione intimista e personale propria alla novella di Boito, per farsi grande affresco storico dell’Italia del Risorgimento come conquista regia e non popolare.

Tuttavia, se attraverso la storia d’amore tra due nemici – la contessa veneta Livia Serpieri e il tenente Franz Mahler dell’esercito austriaco – Visconti intende soprattutto raccontare in ottica marxista il crepuscolo di un’epoca, nello stesso tempo il loro duplice carattere, oscillante tra impulso vitale e autodistruzione, rimanda al tema della passione in forma travolgente e al binomio amore-morte narrati da Boito, a testimonianza di quell’attrazione verso la notte e la rovina, nonché della pervasiva tematica erotica e sessuale, che sono proprie del doppio binario che caratterizza la sua poetica, scissa tra la matrice privata stendhaliana de Il rosso e il nero e la narrazione epico-storica di Guerra e pace.

Le scene degli incontri clandestini nella camera d’affitto, con il moscone che sbatte contro i vetri e il frusciare della tenda, in un’intimità sospesa tra rinuncia e desiderio; la solitudine di Livia nella villa di Aldeno, che le ricorda le convalescenze che seguono le violente malattie dell’infanzia, interrotta dall’irrompere improvviso di Franz che, disertore, le chiede aiuto e protezione: ogni momento della loro vicenda riecheggia di un’aura corrotta e romantica, in una dolorosa dicotomia lacerata tra ragione e sentimento che Visconti riproporrà magistralmente in Morte a Venezia,  dove il pessimismo schopenhaueriano troverà il suo compimento in quell’annientamento della volontà di vita che, spinta da un impulso autodistruttivo, corre verso la fine.

Come nell’omonimo capolavoro di Mann, il professor Von Aschenbach che rincorre languidamente la bellezza efebica del giovane Tadzio – être de fuite che ricorda l’Albertine proustiana – tra le calli di Venezia, in cui imperversa l’epidemia di colera che lo porterà alla morte, non è la rappresentazione di un morboso voyeurismo fine a se stesso, piuttosto conflitto mai risolto tra Sé e Io, arte e vita, Eros e Thanatos. Tuttavia Visconti sceglierà di accentuare la tematica omosessuale latente nel racconto di Mann, maggiormente centrato sul conflitto interiore del protagonista – con questo attirandosi non poche accuse da parte della critica coeva – arricchendo la Bellezza incarnata da un Tadzio lontano e irraggiungibile sullo sfondo del mare, nella cui contemplazione è assorto Aschenbach morente, del segno di una sensualità impossibile e negata, respinta nella solitudine.

Sessualità e perdizione che, in Boito, sono funzionali alla novità rappresentata dalla protagonista Livia, ottocentesca femme fatale la cui consapevolezza e cinismo, al di là di ogni giudizio morale, superano i limiti stereotipati del melodramma romantico, accostando la novella alla cruda forza innovativa del Verismo non meno che alla rappresentazione oggettiva del soggettivo tipica del Simbolismo, al di fuori dunque di consolatori schemi sentimentali, così come al rifiuto della costrittiva morale borghese che è proprio del Decadentismo. Componente sensuale che, a quasi centoventi anni dalla novella del 1883 e a quarantotto dalla trasposizione cinematografica del 1954, nel 2002 sarà presa a pretesto per il film di Tinto Brass Senso’45, schematico cliché di un erotismo patinato privo dell’apporto di alcun contributo degno di nota.

Non solo protagonista della Scapigliatura ma anche accademico, critico d’arte e architetto, Boito rende la sua novella particolarmente significativa anche grazie alla qualità iconica delle descrizioni di ambienti e personaggi, ciascuno reso attraverso impressioni cromatiche e plastiche che ricordano i modelli scultorei dell’antichità greca, nonché della pittura dei grandi veneziani come Tiziano e Veronese. Elemento che, se in parte ignorato o valutato negativamente dalla critica letteraria, sarà largamente compreso e condiviso da Visconti il quale, soprattutto dalla svolta post-neorealista, realizzerà film in cui ogni inquadratura verrà studiata per ricreare la composizione armonica di un quadro pittorico: Senso e Morte a Venezia saranno tra questi.

Fusione tra arte figurativa e scrittura che ritroviamo, come in un gioco di specchi, in Boito e Visconti non meno che in Mann dove, tra il tono alto e paludato di una prosa che ha il sapore della cronaca e le dettagliate introspezioni psicologiche, colpiscono le immagini fortemente iconografiche dei suoi paesaggi interiori: «…una palude tropicale sotto un cielo greve di vapori, umida, lussureggiante e mostruosa, una specie di groviglio primordiale di isole, lagune, bracci di fiumi melmosi, di rigogliosi viluppi di felci, di intricati ammassi di piante turgide, grasse e fantasticamente fiorite, ecc.»; la forza pittorica, spettrale e trasognata di Venezia, rappresentata con la minuziosità di una veduta del Canaletto fin nei dettagli delle gondole, con i loro divanetti laccati di nero funereo e la morbidezza invitante dei cuscini dei sedili; ma, soprattutto, la potenza visiva del «fascino unico e personale» della «bellezza perfetta» di Tadzio, che ricordava «le sculture greche dei tempi più nobili».

Incontro tra arte plastico-pittorica e letteratura che dà vita, nelle due trasposizioni cinematografiche di Visconti, a una qualità figurativa eccezionale e mai fine a se stessa, sempre nella direzione di documentazioni storiche realistiche e accurate che ricreino il più fedelmente possibile, anche da un punto di vista prettamente visivo, l’intero mondo dell’epoca. Attraverso la precisione di costumi, oggetti, linee, volumi e colori – dalla complessa ricostruzione della battaglia di Custoza, con i movimenti di soldati e cannoni, ai particolari dei bottoni della divisa di Franz o i lacci del corsetto di Livia, come ritroviamo in Senso, all’abbigliamento da spiaggia dei bagnanti o le cesellature delle posate d’argento dell’albergo del Lido, in Morte a Venezia Visconti dà corpo e sostanza alla contraddizione tra passione e ragione, pulsioni inconsce e doveri sociali, amore e morte, prospettiva storica e racconto privato. Congiunzione degli opposti che, mai vuoto o superfluo estetismo, con la concretezza della sua fisicità ci ricorda che essere uomo significa essere malato, poiché la devianza, la caduta, è condizione sommamente umana; ci parla cioè della necessità – o piuttosto dell’inevitabilità – di quel connubio con la malattia che è il vero compito dell’arte.