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Cinema

Un cartone che è già un mito contemporaneo

Sul capolavoro "Soul"

di Elisa Scaringi / 20 gennaio

Vivere e morire; nascere e sognare; crescere e pensare. Di tutto questo può significare un film d’animazione, senza la zavorra didascalica di dover raccontare con semplicità un tema difficile. Dopo il capolavoro Inside Out, il nuovo lavoro della Pixar alza ulteriormente l’asticella della qualità. Soul infrange tutti i limiti narrativi di un cartone, per consegnarci l’ovvietà di un’idea complessa: si può nascere attraverso un sogno, si può morire senza aver vissuto, si può crescere alimentando una scintilla. E lo fa concentrandosi su due protagonisti, o meglio su due anime che maturano insieme, raggiungendo un fine bello per entrambe, sebbene diversissimo.

Joe Gardner, l’insegnante afroamericano che insegna musica mentre coltiva il jazz, rifiuta l’ambientazione post mortem nella quale si ritrova suo malgrado, indossando le vesti di un modernissimo Er, il soldato che torna sulla terra per raccontare la sua esperienza nell’aldilà. Ultimo mito tramandato da Platone nel finale de La Repubblica, il punto di contatto con Soul sta nella “seconda possibilità” che viene offerta alle anime morte (quella che il grande filosofo greco chiama “daimon”), quale idea di vita pienamente vissuta nell’esercizio di sé. Joe, infatti, pur avendo evidente consapevolezza delle proprie doti, non può sottrarsi dal “crescere” quando la sua anima si reincarna nel corpo di un gatto, esperienza che lo porta a decidere (proprio come nel mito di Platone) una vita diversa, fino ad allora non vissuta con la giusta consapevolezza. In lui convivono i temi della libera scelta rispetto al proprio progetto e del ruolo che il carattere può avere in questa decisione.

22 è, invece, un’anima intrappolata nell’ante-mondo, incapace di scovare la scintilla salvifica necessaria per “ottenere” una esistenza terrena.

La sua figura rimanda inevitabilmente alla “teoria della ghianda” (descritta dallo psicanalista James Hillman nel suo Il codice dell’anima: carattere, vocazione, destino), secondo la quale ciascun individuo viene al mondo attraverso una forma unica e irripetibile (anche qui chiamata “daimon”), che lo definisce e ne caratterizza la realizzazione. Nata proprio dalla riscoperta dei miti, utilizzati per ridefinire metaforicamente la nozione di anima (primo fra tutti lo stesso Er di Platone), la ghianda non è altro che l’archetipo della scintilla che 22 va scovando da millenni. E che alla fine trova grazie alla guida di un daimon (Joe Gardner), che diventa il genio tutelare di un’anima perduta proprio nel momento in cui anche lui va alla ricerca di un senso per sé. «Una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista. Oppure può possederci totalmente: non importa: alla fine verrà fuori. Il daimon non ci abbandona».

Le parole di Hillman possono qui riferirsi sia a 22, che perde di vista la sua scintilla, sia allo stesso Joe, posseduto totalmente dalla sua di vocazione. Entrambi, infatti, sono “cercatori” e “daimon” allo stesso tempo: ognuno anela per sé un posto adeguato alla propria ghianda, e ciascuno rappresenta per l’altro una guida alla comprensione di sé.

Il vero punto di contatto tra i due (e di svolta per entrambi) sta nella scena in cui la voce di Joe torna nel suo corpo per raccontare alla madre il daimon (o ghianda scintillante) che illumina la sua esistenza: il gatto rimane sulle spalle del corpo di Joe, ma le due anime si fondono e imparano in quel momento cosa sia la vita.

Joe è il mentore assegnato a 22, ma quest’ultima diventa per lui una fonte di ispirazione: «io e voi e chiunque altro siamo venuti al mondo con un’immagine che ci definisce», scrive sempre Hillman. Per un attimo Joe Gardner ri-abita le sue membra, senza cacciare il gatto sulle sue spalle o 22 dentro di sé: il quartetto delle due anime e dei due corpi si trasforma in un essere unico, che insegna e impara contemporaneamente. In quel momento l’intuizione arriva a cambiare il modo di pensare dei personaggi, stimolando quella «sensazione che esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo, e che esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere».

In queste poche parole di Hillman è forse concentrato il nocciolo della questione per Joe Gardner e 22: la scintilla si pone al di là del quotidiano, ma è quella cosa che gli conferisce valore. Un rocchetto, un lecca lecca, un morso di cibo non sono gli “scopi della vita”, ma sono una “scusa” per far emergere il vero “sé” di una persona. Emblematiche sono qui le parole di Jerry (personaggio che incarna la totalità dell’universo in forme umanamente comprensibili): «voi mentori, con i vostri scopi… il senso della vita… Così rudimentali». Hillman scriveva infatti che «la vocazione si esprime nei capricci e nelle ostinazioni, nelle timidezze e nelle ritrosie che sembrano volgere il bambino contro il nostro mondo, mentre servono forse a proteggere il mondo che egli porta con sé e dal quale proviene».

Suol è, quindi, un mito contemporaneo di redenzione, attraverso il quale ciascuno può rileggere la propria biografia utilizzando «le idee implicite del mito, e cioè le idee di vocazione, di anima, di daimon, di destino, di necessità». Un film bello, anzi geniale, che andrebbe rivisto più e più volte, capace di raccontare l’anima e il suo viaggio, «l’immagine di un intero destino» che sta stipata «in una minuscola ghianda, seme di una quercia enorme su esili spalle. E la sua voce che chiama è forte e insistente e altrettanto imperiosa delle voci repressive dell’ambiente».

(Soul, di Pete Docter, 2020, animazione, 101’)

 

LA CRITICA - VOTO 10/10

Soul, il nuovo film d’animazione della Pixar, esce sulla piattaforma Disney+. Un vero peccato per un cartone eccellente, dalle solide fondamenta filosofiche, che parla dell’anima, e dei mille ostacoli che può superare per arrivare a cogliere la scintilla che la illumina.