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Libri

La vita quotidiana come distruzione di sé

“L’uomo visibile” di Chuck Klosterman

di Fabrizia Gagliardi / 26 gennaio

«L’obiettivo di essere vivi è capire cosa significa essere vivi e ci sono una miriade di modi per dedurre questa risposta, io preferisco esaminare la domanda attraverso il contesto di Pamela Anderson, di The Real World e dei Frosted Flakes». Così nell’introduzione di Sex, Drugs, and Cocoa Puffs: A Low Culture Manifesto Chuck Klosterman fa dichiarazione d’intenti neanche troppo velata a quanto perseguito con la scrittura: scoprire le intersezioni inedite tra pop culture e realtà che provocano nuove onde di significati e influenze.

Niente di nuovo dopo David Foster Wallace e gli autori postmoderni, eppure, la portata critica dei cambiamenti comunicativi e tecnologici sembra erodere continuamente tempo e capacità di analisi. Non è solo mutato il modo di fruire la lettura di ogni aspetto della quotidianità ma l’ossessione della narrazione disruptive o autoriferita, che trova espressione e pubblico tra gli internauti, rischia di ridursi a un rumore di fondo, una piccola rivoluzione a compartimenti stagni.

Ecco perché l’analisi dell’illusione dell’amore romantico di Harry ti presento Sally, la cultura americana assuefatta alle immagini del sex-tape di Pamela Anderson e Tommy Lee, un viaggio on the road alla scoperta delle icone rock (Morire per sopravvivere, minimum fax, 2018), traspongono nella vita quotidiana interrogativi che stazionano solo nel mondo idealizzato dell’immaginazione. Più interessante sarebbe anche allontanarsi dal messaggio esplicito e impegnato di un saggio e offrire una riflessione con gli elementi canonici della fiction. Chuck Klosterman ne dà una prova validissima con L’uomo visibile (Alter Ego Edizioni, 2020).

È possibile definire l’autenticità? L’interrogativo di Y___, l’anonimo paziente della psicologa Victoria Vick percorrerà l’intera vicenda. Frammenti di diario, registrazioni e trascrizioni sono espediente narrativo e corollario ironico per una terapia svolta proprio da chi dovrebbe prescriverla. La psicologa si lascerà trascinare nei monologhi del protagonista, uno scienziato in grado di creare una tuta mimetizzante che lo rende invisibile: l’idea è di usarla come un attributo moralmente neutrale per svelare i momenti più segreti e autentici dell’interiorità umana che in pubblico è continuamente recitata e rappresentata. Y___ racconterà di essere stato spettatore di una giovane donna incastrata nel loop ossessivo-compulsivo di lavoro, droghe, alimentazione bulimica e attività fisica; oppure farà visita a un anziano messicano impegnato in chiacchiere con se stesso nella completa solitudine.

Quello che a una prima impressione può sembrare un delirio di onnipotenza ci traghetta molto presto oltre l’intento scientifico dell’osservazione senza turbamento: il bisogno del paziente è di mostrarsi autentico nel suo io sfuggente e simulato, e ricercare questa possibilità nelle realtà altrui. Se per un attimo ci tornano in mente precedenti illustri come Un oscuro scrutatore di Philip K. Dick o il protagonista del libro di Ralph Ellison, Klosterman se ne tiene a distanza con velata ironia. Non c’è un vero e proprio intento politico e metaforico nell’invenzione di Y___, ma solo una proposta di autoanalisi della contemporaneità comunicativa. La mancanza di riferimenti a siti o social network non impedisce di direzionare il pensiero alla costruzione dell’ego online: qui, più che nella comunicazione sincrona, ci si esibisce in finestre di un edificio illuminate a intermittenza per svelare parti a comando.

Con il protagonista di Klosterman siamo al cospetto di un ingombrante esperimento sociologico che cerca di invertire La vita quotidiana come rappresentazione di Erving Goffman. Proprio come le facoltà del linguaggio sono già presenti in specifiche aree del cervello, la dissimulazione del sé, il senso di giusto e sbagliato, vengono apprese velocemente nel teatro della vita in funzione della performance. All’attore che inscena un’identità spetterà calibrare l’autoinganno e la stessa cosa faranno i suoi spettatori, in un effetto domino di recitazione. Naturalmente, come Goffman tiene a precisare, non tutto il mondo è un palcoscenico, ma è molto difficile individuarne la fine.

Alcune delle vittime osservate di nascosto sono incastrate in un’approvazione ricorsiva che le porta a uscire di strada, tra dipendenze e improvvisate, solo per poi ripiegare nuovamente rientrare nelle aspettative che loro stessi hanno creato. Recitare per gli altri è recitazione per sé e sorge spontanea una domanda: si è il personaggio interpretati o si finisce per diventarlo? Essere a casa, lontani dal palcoscenico, porta a riconsiderare tutte le illusioni che fanno parte di autonarrazioni eroiche («Quello che invece ho capito è che la gente ha bisogno di essere scrutinata e interpretata, così da convincersi che ciò che fa abbia importanza»).

Il riflesso del sé rimbalza senza sosta in una casa degli specchi metodicamente costruita nel corso della vita e produce una eco costante: un suono della nostra superficie che ci ha reso abili imitatori della profondità sconosciuta che nascondiamo («Le uniche circostanze in cui si è consapevoli di ciò che si prova è quando qualcosa ci ferisce. Il più delle volte ci auto addestriamo a ignorare le sensazioni»).

L’indagine di Y___ appare fallimentare persino nella lingua: nella sua semplicità e autenticità verrà travisato, scambiato per ironico, cinico senza speranza o dotato di un’illusione infantile, egocentrica ed egoista. In fondo l’unico che persegue il suo bisogno senza nasconderlo con la recitazione è un paradosso, un occultatore della norma, come uno spettatore che svela continuamente i trucchi di un mago. Andrà a finire che l’unica sincerità possibile è un miraggio, perché non è possibile immaginare un’identità libera da interpretazione e scrutinio in un continuo fraintendimento.

 

(Chuck Klosterman, L’uomo visibile, trad. di Leonardo Taiuti, Alter Ego Edizioni, pp. 288, euro 16, articolo di Fabrizia Gagliardi)