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Libri

Il nostro comune incidente

“Non morire” di Anne Boyer

di Silvia Gola / 4 marzo

Leggo sul profilo Facebook di un noto intellettuale italiano che Non morire (La nave di Teseo, 2020), il memoir sull’esperienza del cancro al seno di Anne Boyer (vincitore del Premio Pulitzer 2020 nella categoria General Non-fiction), è un libro che non l’ha convinto perché sembra cavalcare «l’idea che la letteratura sia intelligenza, osservazione acuta». Il memoir di Boyer sarebbe troppo preciso, troppo adorno di riflessioni, troppo accurato, troppo intelligente. Mentre – continua nella recensione – sono le opere che trasudano «distorsione, ottusità, omissione, ipermetropia, ossessione, ironia, follia, abisso» a emozionarlo come lettore.

Preciso, riflessivo, accurato, intelligente: se queste sono le accuse, il libro di Boyer è decisamente colpevole. Non morire nasce nel 2014 quando Boyer, poetessa e saggista quarantunenne che lavora come insegnante e vive con sua figlia nella periferia di Kansas City, scopre di avere il cancro. Un carcinoma mammario triplo-negativo che sta crescendo nel suo corpo quattro volte più veloce dell’espansione considerata «altamente aggressiva».

Per curarsi e sopravvivere, Boyer passerà attraverso una chemioterapia a dose-dense, poi deciderà di cambiare medico accettando di sottoporsi a un controverso trattamento chemio per affrontare il suo particolarmente feroce tipo di cancro; finirà il protocollo sanitario con una doppia mastectomia che, negli Stati Uniti, è considerata alla stregua di una procedura medica standard. Il giorno dopo l’operazione, infatti, un’infermiera la inviterà a lasciare il posto letto: «Dopo l’operazione, le dimissioni mi parvero premature e violente […]. Ma nessuno ti chiede mai come farai non appena ti dimettono forzatamente dal centro chirurgico – chi hai, se hai qualcuno, che si prenda cura di te» (p. 141).

Lei farà sì con la testa e se ne andrà, con ancora quattro drenaggi che le pendono dal busto.

Se questo fosse un libro che vive solo della sua trama, avremmo già finito di parlarne; e se solo di vissuto autobiografico si trattasse, sarebbe facile vederlo come l’ordinato segmento di una lunga catena di scritti del sé attraverso la malattia e il dolore.

Ma Non morire non è un libro che parla (solo) di malattia, ed è per questo che la critica del noto intellettuale italiano non coglie pienamente nel segno: o meglio, tratta come limite quello che è la vera potenza dell’opera.

Perché questo di Boyer è ciò che si potrebbe definire un “libro di linguaggio”, un memoir in cui alla penetrante storia vissuta si ibridano viscerali riflessioni su come oggi, nella nostra società, il cancro venga nominato, affrontato e anche autonarrato sempre in un certo modo. Così come negli anni Settanta aleggiavano, intorno alla malattia, sia stigma che rimosso, Boyer rintraccia come oggi il discorso pubblico sul cancro sposi l’idea dell’empowerment del malato che, solo davanti al mostro da combattere, deve dimostrarsi forte, ottimista, performante. La persona malata è un vero e proprio soldato che deve vincere la battaglia contro il nemico invisibile.

Considerazioni del genere, a suo tempo, erano già presenti in Malattia come metafora di Susan Sontag (1978), un saggio ritenuto fondamentale nel campo della critica culturale. E tuttavia Boyer aggiunge qualcosa che non c’era nel libro di Sontag (che pure soffrì e morì di cancro al seno): l’autrice assembla la narrazione usando la prima persona, restituendo così, in modo quasi tattile, la sofferenza insita nell’essere una malata di cancro.

La scelta della prima persona, però, non deve far credere che Boyer si conceda una prosa autoindulgente: se possibile, proprio il contrario. Stilisticamente, infatti, la scelta è l’antiretorica, un protocollo “antiperformativo”: nel suo dipanarsi antifilmico, antivisivo, Non morire è un libro autentico, che non si adegua a una compassata grammatica del dolore. Un libro che si compone anche di tempi morti, periodi sconnessi, piccole annotazioni apparentemente senza senso: è così che Boyer vuole raccontare il dolore, intimo e universale, per quello che realmente è e comporta.

La storia della letteratura è piena di scritture di chi, confrontandosi con l’esperienza della «malattia del secolo», ha voluto trovare dei granelli di senso dentro la più feroce delle casualità e ha deciso di rendere una testimonianza del proprio viaggio dentro e con il cancro. E nel novero di queste autonarrazioni (o autoesposizioni), se pure è vero che tanti – forse tutti – scrivono in modo sincero della propria malattia, è altresì vero che la tendenza è quella della prospettiva “io contro la malattia”, “io devo vincere”, “io mi faccio forza e sorrido”.

Pensarsi singoli nella malattia, responsabili della propria guarigione e del doversi mostrare ottimisti e combattivi per sopravvivere al cancro: tutto questo indebolisce la possibilità di un pensiero politico sulle cause del cancro. Anne Boyer non ci sta: il suo vissuto di dolore viene aperto, massimamente estroflesso, alla riflessione politica e collettiva sul cancro.

«Immobilizzata a letto, decido di dedicare la mia vita a far sì che la risposta socialmente accettabile alla notizia della diagnosi di tumore mammario non sia il correttivo “Sii positiva”» (p. 120). Perché singolarizzare la malattia e aderire alla narrazione neoliberista sono due facce della stessa medaglia: se sei positiva e ottimista e pensi di poterlo sconfiggere, tu lo sconfiggerai. Dipende solo da te.

«Il fallimento morale del cancro non è nelle persone che muoiono: è nel mondo che le fa ammalare, le manda in bancarotta per una cura e poi le fa ulteriormente ammalare, infine le incolpa per le loro morti» (p. 182).

Per Boyer, il cancro è «il nostro comune incidente»: «Il cancro è visto come una sofferenza speciale, ma non c’è niente di audace nel patire l’inevitabilità del nostro comune incidente. Essere figlia di questo imprevisto non mi ha mai resa membro di una classe audace» (p. 120).

Agli antipodi rispetto alla versione motivazionale dell’avere il cancro, Boyer affonda le sue radici in tutt’altro terreno e trae la propria forza e il proprio furore analitico dal non sapersi sola, ma malata tra malate, vittima tra vittime. Non per godere della propria subalternità ma per ristabilire dove stanno le responsabilità della «carcinogenosfera rovinosa del patriarcato di suprematisti bianchi capitalisti» (p. 81).

Ma per avere questa forza, questo furore analitico, deve esserci uno spietato atto di decostruzione del linguaggio: ci vogliono intelligenza, acume e precisione. Come ci vuole una grande forza morale per sapersi opporre alla narrazione dominante che diventa anche condizione di comfort. Ci vuole forza per sapersi calare nella realtà, avvilente e squallida: la realtà dove il cancro è una malattia che colpisce a caso, un fenomeno dall’eziologia ancora molto incerta ma che coinvolge milioni di persone ogni anno.

Ci vuole un libro come questo per continuare a interrogarsi sulla tensione, mai sopita, tra essere un individuo ed esistere, in modo contingente, in mezzo agli altri. «Scrivere solo di se stessi magari è scrivere di morte, ma scrivere di morte è scrivere di tutti» (p. 17).

 

(Anne Boyer, Non morire, La nave di Teseo [The undying, trad. di Viola Di Grado], 2020, pp. 282, euro 20, articolo di Silvia Gola).