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“Shtisel”: una serie da 10 e lode
La terza stagione della serie Netflix
di Elisa Scaringi / 9 aprile
Solo un anno fa iniziava il lockdown, e su Netflix impazzava Unorthodox, prima miniserie interamente in yiddish, uscita proprio nel marzo 2020. Ora che le zone rosse vanno per la maggiore, Netflix ci riprova con la terza stagione di Shtisel, azzeccandoci ancora una volta.
Prodotta, girata e montata solo l’estate scorsa (dopo il successo di pubblico che l’ha travolta sulla scia di Unorthodox), la serie – andata in onda per la tv israeliana nel 2013 e approdata su Netflix nel 2018 – conquista il pubblico per le modalità narrative con cui viene raccontata la vita degli Shtisel, una famiglia di charedim residente nel quartiere di Geula a Gerusalemme.
Come scrive Martin Goodman nella sua Storia dell’ebraismo (Einaudi, 2019), «gli uomini, anche nel pieno dell’estate mediterranea, vestono redingote nere e caffetani, e una grande varietà di cappelli di pelliccia a tesa larga; le donne e le ragazze sono vestite modestamente, con maniche lunghe e calze nere. Gli uomini e i ragazzi portano i payot, i boccoli laterali, a volte nascosti dietro le orecchie, e hanno barbe fitte. Le donne sposate, invece, devono avere i capelli sempre coperti, tranne quando si trovano sole con i loro mariti, e indossare una sciarpa o una parrucca».
Così ritroviamo i protagonisti di Shtisel, con il loro abbigliamento monotono, i segni tipici dell’ebraismo cosiddetto ortodosso, l’arredamento antiquato: l’esistenza procede mantenendo anche nel 2000 le usanze del XIX secolo. Se per Unorthodoxla segregazione fisica permette alla comunità di ebrei ortodossi residente a New York «di erigere» – come scrive Goodman – «vere e proprie barriere contro l’influenza di televisione, giornali, pubblicità e tutto il resto della cultura popolare», per gli ideatori di Shtisel il punto nodale sta proprio in questo: la modernità è davvero così lesiva dell’essere “timorati di Dio” e “ansiosi” di osservarne i comandamenti, come viene spiegato letteralmente il significato della parola charedim?
Sebbene tutta la vita dei personaggi sia «strutturata intorno al rituale religioso, sia in casa per le donne sia nelle sinagoghe e nelle sale di studio per gli uomini», in modo che la tradizione venga preservata dalla totale osservanza della Torah, la modernità non è poi così demoniaca come viene dipinta in Unorthodox, dove il senso di soffocamento vissuto dalla protagonista trasforma la miniserie in una storia di riscatto femminile dalle catene di un ebraismo tutt’altro che progressista. Con Shtisel invece la comunità ortodossa viene riabilitata, suscitando in chi guarda un certo senso di familiarità: i cappelli a tesa larga, i boccoli laterali e le parrucche non tratteggiano più una comunità chiusa e soffocante, ma una famiglia “quasi” comune che, al di là della propria fede religiosa, affronta i problemi quotidiani di ciascuno: amori che nascono e finiscono, genitori che si scontrano con i figli, giovani che tentano di ribellarsi agli adulti, anziani che si affaticano per le solitudini della vecchiaia.
Sullo sfondo non mancano i dilemmi legati a una contemporaneità che cerca di scardinare la tradizione, ma la novità sta nel fatto che questi non vengono rinnegati o rifiutati con riluttanza; anzi, è indiscutibile una evidente apertura, delicata e a tratti comica, rispetto a tutto ciò che può essere moderno. La nonna Malka che guarda per la prima volta la televisione appena arrivata in casa di riposo e si appassiona agli intrighi amorosi di Beautiful; il giovane Akiva che persegue con tenacia la sua passione artistica per il disegno, affermandosi poi come pittore da esposizione museale; la coppia Ruchami-Hanina che decide di affidarsi alla maternità surrogata; il tormentato Lippe che si entusiasma per gli smartphone o si lancia nel reclutamento di comparse cinematografiche.
Lo “spiraglio” che la famiglia Shtisel fa entrare nella propria esistenza si spalanca nella terza stagione della serie televisiva: il protagonista Akiva, con i suoi tormenti d’amore e la passione per i ritratti, lascia spazio alle donne, che si impongono sulla scena di Shtisel proponendo una vera “rivoluzione”.
Giti si afferma come ristoratrice dopo aver rilevato il locale frequentato dal fratello Akiva, la cognata Tovi prende la patente e acquista una macchina per tutta la famiglia, la figlia Ruchami sfida la natura del proprio corpo per non rinunciare alla maternità, il figlio Yosa’le si innamora di una giovanissima ricercatrice universitaria, il padre Shulem e lo zio Nukhem si contendono la stessa conduttrice radiofonica, il fratello Akiva si innamora di una imprenditrice in lotta con la propria depressione. Tutte donne ortodosse che non si lasciano trascinare dalla goffaggine degli uomini che le circondano: non dimenticando mai il proprio credo religioso, con coraggio si impongono come protagoniste autentiche e mai banali.
La forza della terza stagione di Shtisel sta proprio nel tono fresco e veritiero col quale viene raccontata l’umanità e i sentimenti di una famiglia ebrea ortodossa della Gerusalemme di oggi: persone come noi, che, una volta incontrate sullo schermo, ci piacerebbe frequentare anche nella vita vera, nonostante i cappelli a tesa larga, i boccoli laterali e le parrucche.