Varia
Nuovi protagonisti, vecchi difetti
di Francesco Vannutelli / 30 aprile
C’era un po’ di attesa intorno a Zero, la serie tv tratta dal romanzo Non ho mai avuto la mia età di Antonio Dikele Distefano. Attesa e curiosità per un progetto che si preannunciava moderno e innovativo per gli standard italiani, con il coraggio di parlare di super poteri e integrazione e andare oltre i classici confini di genere.
La presenza di Menotti come ideatore e supervisore di serie sembrava una garanzia. Già sceneggiatore di Lo chiamavano Jeeg Robot, Menotti avrebbe potuto garantire il giusto inquadramento per un nuovo quasi cinecomic all’italiana. Purtroppo non è andata così.
I pregi di Zero si fermano alla capacità di raccontare una Milano – e di conseguenza un’Italia – che ancora riceve troppo poco spazio: quella dei giovani italiani nati da genitori provenienti da altri paesi e culture. Fedele al suo impegno per l’inclusività, Netflix ha trovato nei bestseller e nella figura di Dikele Distefano un ottimo spunto di partenza.
La storia è quella di Omar, un ragazzo figlio di genitori senegalesi, orfano di madre e con il sogno di diventare fumettista. Vive nel Barrio, un generico quartiere periferico di Milano, dove si guadagna qualche soldo consegnando pizze a domicilio. Un giorno, mentre scappa da un apparente malintenzionato, scopre di poter diventare invisibile. Decide di sfruttare il suo super potere per aiutare un gruppo di nuovi amici a difendere il quartiere dagli interessi senza scrupoli di un investitore immobiliare.
La scoperta casuale di un super potere è un punto di partenza classico di fumetti e cinecomic. Qui diventa metafora dell’invisibilità sociale di Omar, timido e sognatore, incapace di trovare un posto preciso tra le tradizioni del padre e il suo bisogno di cambiare.
Menotti non è riuscito a replicare la formula vincente del Jeeg Robot diretto da Gabriele Mainetti. Zero assume in sé tutti i difetti del cinema italiano che prova a confrontarsi con i generi. Non è questione di inadeguatezza di mezzi, ma di incapacità di calarsi in un linguaggio senza adattarlo a una realtà diversa da quella di Hollywood.
È probabile che nelle intenzione originali dei produttori Zero dovesse diventare una versione ripulita senza sesso e droghe di Misfits, lo show britannico che univa periferia e supereroi disagiati. Non ci sono riusciti.
In questa serie troviamo invece gli stessi identici e imperdonabili errori dei due film di Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores: un prendersi sul serio senza motivo, un’incapacità totale di dire qualcosa di interessante, originale o anche solo divertente sul tema dei super poteri.
Dopo un avvio discreto nei primi episodi, Zero perde presto lo slancio e precipita in una scrittura sciatta e in una recitazione decisamente non all’altezza. I giovani protagonisti ci mettono del loro meglio, ma non sono serviti da dialoghi credibili o da una regia che provi a non farli sembrare ridicoli.
Zero finisce in fretta per rivelarsi un contenuto vuoto, incapace di raccontare gli adolescenti come altri prodotti recenti hanno dimostrato di saper fare molto bene – Skam Italia, su tutte –, o di descrivere la periferia in modo inaspettato come per esempio il film Attack the Block di Joe Cornish.
Se Netflix sta lentamente prendendo le misure con il nostro cinema con produzioni interessanti, come L’incredibile storia dell’isola delle rose, sulle serie tv c’è ancora tantissima strada da fare.