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Spingere la vita in avanti

“E poi saremo salvi” di Alessandra Carati

di Fernando Coratelli / 12 luglio

«Ogni oggetto del mondo ha almeno due vite», diceva l’artista Alighiero Boetti, tanto da mettere in crisi la propria identità, per poi sviluppare artisticamente un’identità doppia. Questa divisione, questo frazionamento dell’unità, dà luogo a un prolungato e ineluttabile processo di separazione all’infinito che alla lunga rischia di non permettere più la riunificazione, la ricomposizione delle scissioni avvenute. C’è questo concetto alla base di E poi saremo salvi, il romanzo d’esordio di Alessandra Carati (Mondadori, 2021).

La storia inizia in quel maledetto 1992 in Bosnia, quando prende il via la disgregazione della ex Jugoslavia che fu di Tito, e che portò a una guerra devastante, a un genocidio incomprensibile nel cuore dell’Europa orientale. L’autrice fa una scelta coraggiosa: entra narrativamente in Aida, una bambina bosniaca cinquenne costretta a fuggire dal suo piccolo villaggio con la madre incinta, in un’orribile e interminabile notte nella quale raggiungerà il padre: con lui, passeranno il confine per arrivare in Italia.

La condizione di profughi resterà loro attaccata per anni, per sempre, una condizione che sembra assumere quella di apolide, che si riverbera in modo differente su ciascun componente della famiglia. Fatima, la madre, dopo avere partorito Ibro, il figlio di cui era incinta al momento della fuga, diventa abulica, dimagrisce, «si rifiutava di spingere la vita in avanti», fino a mettere a rischio la salute del neonato. Damir, il padre, un uomo forte, un comunista convinto ai tempi di Tito, tanto da vivere con una gigantografia del generale, in questa seconda vita «non riusciva a essere un vincente», forse perché dentro si porta il tormento di essere scappato dal suo paese e «di non essere un buon patriota». Così, agli occhi della figlia finisce col diventare «cattivo, e il suo odio si spandeva come olio su chiunque fosse a tiro». Come non bastasse, il padre prova a salvare l’identità perduta attraverso la religione; lui che era sempre stato ateo, improvvisamente segue i precetti del Profeta e pretende che facciano altrettanto i figli, Aida in particolare.

Lei, dal canto suo, vuole integrarsi, vuole scrollarsi di dosso quella non-appartenenza a qualsiasi luogo; già, perché non è italiana, ma non è più neanche bosniaca, se è vero che comincia a dimenticare la sua lingua madre. Ibro invece, nato in Italia, porta il nome del fratello maggiore del padre, morto quando aveva due anni – e per Aida questa scelta suona come sinistro presagio. È un bambino vivace, anche troppo, che solo la protagonista riesce talvolta a calmare. Il suo è un disagio innato, un’eco ancestrale che ha assorbito forse in quella notte di fuga.

Nella prima metà del romanzo, Alessandra Carati si addentra in una realtà di rado raccontata dalla letteratura mainstream, quella guerra di Bosnia che sembra sia stata in parte cancellata dalle nostre memorie. Qualche anno fa era uscito per Bompiani un altro grande esordio, quello di Ismet Prcić, Schegge (Bompiani, 2015), che descriveva quel contesto terrificante, e che con E poi saremo salvi condivide parecchi punti: dalla fuga alla perdita di identità, dalla guerra che ti porti dietro, anzi addosso come un tatuaggio indelebile, al senso di colpa per avere lasciato ad altri il compito di lottare per il tuo paese.

Non c’è nostalgia di casa, c’è invece una presenza costante dello sradicamento, che in Aida si percepisce perfino nella sua volontà di farsi adottare da Emilia e Franco, i volontari che li hanno aiutati, per diventare cittadina italiana a tutti gli effetti. Come nel romanzo di Prcić, la Bosnia è in ogni cosa, metafora sinistra di un secolo – il Novecento – che si è aperto con la Grande guerra scatenata a Sarajevo e lì si è concluso con l’ultima guerra su territorio europeo. Quando Aida ormai sedicenne torna nella sua Bosnia, si rende conto della distanza che si è creata dal giorno della fuga, tanto da dire che «tutta la nostra vita era divisa tra un prima e un dopo», cosa che la spinge a uno straniamento, così che «la vita prima della guerra era una dimensione parallela, a volte mi domandavo se fosse davvero esistita».

Questa instabilità territoriale, accompagnata da uno straniamento identitario, si riflette a pieno sulla fragilità emotiva dei personaggi, tanto che nella seconda parte di E poi saremo salvi il focus si sposta sulla malattia mentale di Ibro. Aida vede pian piano precipitare suo fratello in quella che poi verrà diagnosticata come schizofrenia paranoide. È un crollo verticale, lo sfaldamento inarrestabile di una vita come lo era stato di un paese. Lei le prova tutte, si laurea perfino in medicina, come se solo questo potesse bastare a guarire quelle ferite profonde che ciascuno di loro reca in sé.

Quello di Alessandra Carati non è un romanzo consolatorio, non prova a rimettere in ordine i tasselli come un puzzle. Racconta una verità drammatica e, come tale, non tutti i pezzi possono andare al proprio posto, soprattutto perché rispecchia la vita che talvolta ci scivola via «di dosso e non sapeva come trattenerla, perciò piangeva, s’infuriava».

È un romanzo crudo, scritto con una lingua piana e ritmata, che riflette a pieno il senso della guerra, della perdita, dell’incurabilità dell’io. Eppure, in quella crudeltà, c’è una compostezza autoriale che rende ancor più vivido il racconto, che non lascia via di fuga al lettore, che si ritrova a fare i conti con Aida di quella separazione iniziale, e che non potrà più tornare all’unità originaria.

 

(Alessandra Carati, E poi saremo salvi, Mondadori, 2021, 276 pp., euro 18, articolo di Fernando Coratelli)