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Libri

Nanni Moretti come cura? Leggere attentamente il foglietto illustrativo

“Nanni Moretti. Il cinema come cura”
di Roberto Lasagna

di Giulia Marziali / 4 novembre

Il tempo cambia molte cose nella vita / il senso, le amicizie, le opinioni / che voglia di cambiare che c’è in me. / Si sente il bisogno di una propria evoluzione / sganciata dalle regole comuni / da questa falsa personalità. / Segnali di vita nei cortili e nelle case all’imbrunire / le luci fanno ricordare / le meccaniche celesti.

(Franco Battiato, Segnali di vita)

 

 

Era il lontano 1981, il film era Sogni d’oro. Michele Apicella, alter ego dei primi film di Nanni Moretti, un regista alle prese con una pellicola su Sigmund Freud, è in crisi, sempre più frustrato dall’incomprensione e dall’accoglienza ostile riservata al suo lavoro. A ogni proiezione c’è un pedantissimo critico – interpretato da Dario Cantarelli – che alza il ditino: «Ma di questo film che gliene importa alla gente comune, semplice, che lavora, a un povero bracciante lucano, a un pastore abruzzese, a una modesta casalinga di Treviso?».

Era il lontano 1981 e Nanni Moretti si chiedeva perché tutti si sentissero in diritto, in dovere di parlare di cinema. «Tutti parlate di cinema, tutti parlate di cinema, tutti! Parlo mai di astrofisica, io? Parlo mai di biologia, io? Parlo mai di neuropsichiatria? Parlo mai di botanica? Parlo mai di algebra? Io non parlo di cose che non conosco! Parlo mai di epigrafia greca? Parlo mai di elettronica? Parlo mai delle dighe, dei ponti, delle autostrade? Io non parlo di cardiologia! Io non parlo di radiologia! Non parlo delle cose che non conosco!»

Stacco.

Siamo nel 2021. Tutti si sentono in diritto, in dovere e, in una certa illusoria misura, dato l’avvento dei social network, in potere di parlare di qualunque cosa. Ogni previsione, per quanto grottesca, di Nanni Moretti sembra essersi avverata, incluse la caduta del Caimano e un papa che rifiuta il soglio pontificio.

Ripercorrere la storia dei film di Nanni Moretti diventa dunque, oltre che un piacere da cinefili, un esercizio utilissimo, una cartina tornasole per leggere l’evoluzione (o involuzione?) della società italiana. Per Roberto Lasagna, nel suo Nanni Moretti. Il cinema come cura (Mimesis, 2021), addirittura un atto terapeutico.

Con un testo agile ma strutturato, Lasagna prende in esame una carriera importante e fortunata, segnata da una preminenza che fino a Tre piani – film appena uscito in sala – era indiscussa: quella del corpo in scena di Moretti. Sia nella forma dell’alter ego Michele Apicella dei primi film fino a Palombella rossa (1989), sia nei sostanzialmente autobiografici Caro diario e Aprile, girati negli anni Novanta. Oppure nei ruoli interpretati a partire da La stanza del figlio (2001), vero punto di svolta, in cui è, scrive Lasagna, «per un’ultima volta il personaggio principale attorno a cui si articolano i momenti del racconto».

Fino ad arrivare a Tre piani – primo caso di adattamento da un testo scritto da qualcun altro, il bel romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo – nel quale Moretti non è che uno dei molti personaggi le cui storie si intrecciano all’interno di un elegante rione di Prati a Roma. «Luogo di temi», scrive Lasagna, «che allargano l’intelaiatura drammatica dell’universo morettiano, di cui emerge l’attenzione per i segreti che paiono fratture persistenti più che motivi di facile condivisione». Luogo in cui, aggiungo, Nanni Moretti sceglie per sé il ruolo di un giudice inflessibile, freudianamente accomunato all’istanza del Super Io, che muore a metà del film, lasciando sua moglie “libera” dall’eccesso di severità che aveva caratterizzato le loro vite.

Ma non sono soltanto i film, a partire dai cortometraggi iniziali prima dell’esordio con Io sono un autarchico del 1976, a essere presi in considerazione da Lasagna, che indaga anche l’attività di produttore – con la Sacher Film, fondata nel 1987 insieme ad Angelo Barbagallo – e di padrino degli esordi di cineasti come Carlo Mazzacurati e Daniele Luchetti, oltre a quella di attore diretto, spesso con ottimi risultati, da altri (Daniele Luchetti, Mimmo Calopresti, Antonello Grimaldi).

«Autore del suo tempo, Moretti continua a contribuire al cinema con il suo percorso personale, talvolta partecipando al lavoro di altri autori a cui presta il suo volto e la sua recitazione seguendo esperienze che richiamano il particolare momento vissuto e regalando a se stesso l’opportunità di mettersi soltanto davanti alla macchina da presa, per sondare la via di quell’arte della recitazione che è arte-terapia tanto per l’attore quanto per il personaggio».

Ecco, se c’è qualcosa che mi convince un po’ meno nel libro, che pure sistematicamente e con analisi ben contestualizzate affronta l’opera del regista, è il voler a tutti i costi evidenziare questa potenzialità curativa del cinema di Nanni Moretti.

Probabilmente un vizio di forma del dibattito contemporaneo, l’accentuare l’aspetto self helping di qualsiasi attività alla quale ci si dedichi, in casa come fuori; mentre forse più che di cura il cinema di Moretti è un cinema di crisi.

Un cinema nel quale il superamento delle crisi di personaggi che spesso fanno lavori deputati alla cura delle anime altrui – dal prete di La messa è finita allo psicologo di La stanza del figlio, dallo psicanalista o il papa stesso di Habemus Papam al figlio accudente in Mia madreè affidato in ultima istanza non a un percorso terapeutico specifico, ma alla possibilità sociale del dividere il dolore della propria esistenza con gli altri, sentirsi meno soli, meno isolati e dunque meno sconfitti.

Quel valore della collettività che Moretti ricercava nella grande illusione della sinistra rivoluzionaria in politica e che ha finito per trovare in una specie di social catena leopardiana, nella famiglia, negli affetti, nei legami di prossimità. In rapporti d’amore e amicizia dei quali, per quanto imperfetti e imbarazzanti, abbiamo disperatamente bisogno, soprattutto oggi.

Moretti d’altronde ha sempre creduto nelle persone, ma non nella maggioranza delle persone. E se c’è una cosa che ha sempre a suo modo ribadito nei film è che gli altri sono l’inferno («sa qual è il mio problema? non mi piacciono gli altri», diceva in Bianca), ma possono essere anche – loro sì – la cura.

E dunque se il suo cinema può servire da cura, è una cura omeopatica, o un effetto placebo, che funziona nella misura in cui riesce a mostrarci come siamo fatti – come siamo fatti male! – e riconoscere quei segnali di vita nei quali intravvedere le meccaniche celesti delle nostre piccole vite. Molto meno speciali di quanto vorremmo, ma non per questo indegne di attenzione. Un po’, forse, come gli ultimi film di Nanni Moretti.

 

(Roberto Lasagna, Nanni Moretti. Il cinema come cura, Mimesis, 2021, pp. 156, euro 14. Articolo di Giulia Marziali)