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I social network e la nostra capacità di stare al mondo

A proposito di “SociAbility” di Francesco Oggiano

di Giulia Marziali / 10 marzo

«E brindo a chi è come me, al bar della rabbia».
(Mannarino)

 

 

«Mi piace scrivere nei bar», esordisce il giornalista Francesco Oggiano nell’introduzione di SociAbility. Come i social stanno cambiando il nostro modo di informarci e fare attivismo (Piemme, 2022).

Quello del bar è un tema che ritorna in tutti coloro – Oggiano come molti altri – che sono affettuosamente legati a una dimensione di aggregazione casuale e generalista, di ciarla spontanea e un po’ naif su argomenti che vanno dal pettegolezzo alla politica internazionale, dalla sociologia spiccia all’economia nazionale. Un’immagine che inevitabilmente richiama quella del social network, dove la cosiddetta chiacchiera da bar la fa ancora da padrona. Eppure, nonostante i “buongiornissimi” con le immagini kitsch di tazzine di caffè, dell’ambiente alla buona del bar è rimasto molto poco, mentre decidere di accedere al proprio feed di Facebook, Twitter, Instagram, oggi, ha invece qualcosa più in comune con l’ingresso in un’arena. E non importa che tu sia il migliore dei gladiatori, uno schiavo, la vittima designata o semplicemente parte del pubblico: quel che è certo è che un po’ dell’equivalente social del sangue anche oggi scorrerà.

Si è definitivamente compiuto il passaggio da quello che Oggiano chiama appointment internet, cioè un ambiente usato prevalentemente per comunicare coi propri amici, la preistoria dei social network, al performance internet, cioè questa specie di palcoscenico sul quale ciascuno di noi – che abbia cento follower o centomila – tiene molto a dare la migliore versione di sé. Prendendo parte, molto spesso, alla polemica del giorno e contribuendo al proprio processo di posizionamento.

E non vale soltanto per i singoli, ma anche per i brand, siano essi colossi dai profitti milionari che esibiscono bandierine arcobaleno e strombazzano la loro inclusività oppure influencer che usano «più che la loro immagine per combattere battaglie, le battaglie per definire la propria immagine», o ancora politici spregiudicati il cui flusso ininterrotto di fake news e idiozie non lascia neanche il tempo per ventiquattr’ore di dovuta ignominia.

Di chi è la colpa?, verrebbe da chiedersi assecondando questa tendenza a puntare il dito, a dividere tutto in buono e cattivo. La verità è che è pressoché impossibile dirlo.

L’unico buon servizio che ciascuno di noi può rendere a se stesso, e alla società in cui vive, è abbracciare la complessità del reale e provare a portarla sempre con sé, soprattutto sulle piattaforme che della nostra indignazione fanno moneta corrente.

In una ricostruzione intelligente e vivace della storia non già dei social network, ma del loro uso performativo, Francesco Oggiano mette insieme una serie di elementi preziosi che possono aiutarci a decodificare le tendenze polarizzanti del dibattito pubblico, che sta assumendo via via forme sempre più grottesche e vagamente inquietanti per le ricadute sulla vita cosiddetta reale.

Il mantra onnipresente del “non si può più dire niente” e lo spaventoso abuso del termine “cancel culture” (che pure avrebbe anche un senso, in alcuni casi) è qualcosa su cui siamo moralmente obbligati a interrogarci in maniera costante, sottoponendoci a test periodici e circostanziati.

Siamo in grado di riconoscere quelle che Oggiano chiama «fuck news», ovvero le notizie che ci fanno prontamente indignare? E siamo capaci di trattenere quella vocina che vuole a tutti i costi dire la sua, spesso soffermandosi al titolo, allo strillo o a una prima sommaria ricostruzione della vicenda? E se invece, dopo esserci magari anche opportunamente documentati, diamo retta all’altra vocina che ci dice che è meglio lasciar stare – ma chi te lo fa fare poi di metterti a litigare! –, stiamo forse subendo una forma di (auto)censura che a lungo andare inibirà le nostre capacità critiche?

E se nell’antichità c’erano capri espiatori e pharmakon usati per emendare i peccati collettivi, processi sommari e gogne pubbliche, oggi non assistiamo forse a un ricorso storico della tragedia che – come da adagio marxiano – si ripete in farsa, quando professori universitari o dirigenti d’azienda sono costretti ad accorati messaggi di scuse, se non alle dimissioni, in seguito a un’affermazione infelice, o quando artisti famosi incontrano la fine della loro carriera per un’accusa di molestie ben prima del giudizio di un tribunale?

E se la cancel culture, perlomeno in Italia, è un concetto cavalcato innegabilmente da populisti beceri o reazionari in opposizione a forme più inclusive di espressione, è pur vero che una generazione di quelli che Oggiano chiama “illiberali di sinistra” si sta rivelando sempre più intransigente – con modi e tempi che ricalcano troppo quelli dei presunti avversari – verso chi magari ha soltanto bisogno di più tempo (e più complessità) per accettare alcune nuove istanze e abbandonare retaggi di un passato ancora molto, troppo presente.

Tra i risultati possiamo annoverare un caso come quello, recentissimo, in cui – in un delicato frangente storico – uno stimato scrittore e grande esperto di lingua e letteratura russa come Paolo Nori si vede “sospendere” e poi riproporre, ma con qualche modifica, un seminario su Dostoevskij all’Università di Milano Bicocca, e per evitare “ogni forma di polemica” si passa più tempo a litigare o a schierarsi sui social che a farsi delle domande su quanto i vertici del sistema culturale italiano siano sempre più spesso in mano a un’imbarazzante accozzaglia di grotteschi burocrati. Per non parlare del tempo che avremmo tutti ottimamente potuto impiegare leggendo L’idiota e Delitto e castigo.

Che i social network, soprattutto per un personaggio pubblico, non possano essere un luogo dove parlare senza filtri proprio come al bar, questo ormai è evidente a chiunque; eppure il nostro anelito a un mondo nel quale ciascuno possa esprimere la propria opinione, per quanto in disaccordo con la maggioranza o anche francamente scorretta, in piena libertà, dovrebbe farci dubitare di chiunque pretenda di ergersi a giudice.

Oggiano, che del mare digitale è navigatore ormai esperto (speravamo di non dover mai utilizzare il sintagma digital journalism in questo articolo ma, a voler essere corretti, è esattamente ciò di cui si occupa) e fa parte del team di Will Media, popolare progetto di giornalismo e divulgazione economico-politica pensato per essere fruito su Instagram, mette insieme una sua ricetta per provare a migliorare il futuro dei social, dell’attivismo, dei brand, della politica, ma soprattutto il futuro del nostro essere umani.

In sintesi, dobbiamo tenere sempre ben presenti tre elementi: le fonti («Se hai una fonte, è lei che controlla te. Se ne hai dieci, sei tu che controlli loro»), il senso critico («Quando ti sembra troppo bello per essere vero, non è vero») e il contesto.

Non sarà sempre divertente come una colazione con gli amici del bar, ma è indispensabile come un caffè per restare svegli.

 

(Francesco Oggiano, SociAbility. Come i social stanno cambiando il nostro modo di informarci e fare attivismo, Piemme, 2022, pp. 208, 11,90 euro. Articolo di Giulia Marziali)