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“Nel furor delle tempeste”: i tormenti di un genio nell’età dell’oro

Intervista a Luigi La Rosa

di Carmine Madeo / 30 maggio

Dopo l’affascinante viaggio nella Francia della Belle Époque, attraverso la vita romanzata del genio dell’Impressionismo Gustave Caillebotte (L’uomo senza inverno, Piemme, 2020), con il suo nuovo libro, Nel furor delle tempeste (Piemme, 2022), Luigi La Rosa ci porta ancora a spasso nell’Ottocento, tra il Regno borbonico, Milano e la Londra di Guglielmo IV per seguire le orme di Vincenzo Bellini. Quello dell’enfant prodige non è solo il racconto di un talento straordinario, ma, come già visto in Caillebotte, è un percorso di sofferenza costellato da sacrifici, insuccessi e cocenti delusioni. Contraddizioni e analogie caratterizzano i due grandi artisti, disillusi e soccombenti di fronte alla spietatezza del mondo esterno. Ne abbiamo parlato con l’autore.

 

Qualche tempo fa c’eravamo sentiti in occasione dell’uscita di L’uomo senza inverno, dedicato alla figura del pittore Gustave Caillebotte e, se non ricordo male, mi dicesti di aver impiegato circa sette anni per arrivare a una stesura definitiva del romanzo. Seguendoti sui social, ho visto foto di appunti manoscritti sui tavoli dei caffè parigini, che immagino, anche alla luce di quanto letto finora, siano i tuoi principali luoghi di ispirazione. Come nasce l’idea di raccontare Caillebotte e successivamente Bellini, ma soprattutto come si è sviluppato e si è strutturato il tuo lavoro di ricerca e di stesura? Qual è il rapporto tra la storia reale e la finzione narrativa?

Le mie storie nascono sempre da un elemento di verità, di esattezza storica. Mi piace partire da un evento concreto e poi fondere realismo e immaginazione, nitore e finzione. Ebbene, nel caso di Gustave Caillebotte, mi sono innamorato di un suo dipinto – quello che ritrae dei piallatori di parquet in un interno domestico parigino. Per Bellini è stato invece una sorta di incontro medianico: ne ho parlato spesso, più volte sono tornato al pomeriggio in cui, durante una tempesta di vento, una striscia di carta contenente un suo ritratto mi veniva addosso. Vi ho colto un segno. Da allora sono cominciate le ricerche, tramite tutte le fonti che riuscivo a reperire. È sempre così che succede: prima la dura ricerca, poi la creazione, l’immaginazione. Infine la scrittura, che fonde insieme le due anime del mio lavoro.

 

L’Ottocento è il secolo che accoglie e anima la tua narrazione. Le descrizioni degli incontri di Caillebotte al Café Guerbois, le sue gite nella tenuta di famiglia a Yerres, come pure le cene del Bellini negli ambienti milanesi e la sua partecipazione alle prestigiose riunioni nella Londra di Lady Hamilton, sembrano raccontarci la realtà ideale di un’età aurea, popolata da élite di intellettuali e artisti, che vivono in armonia, apparentemente disinteressati alla politica e al mondo esterno. E ho avuto l’impressione che tu desiderassi vivere in quell’epoca. In una sua opera, Paul Signac rappresenta quello che lui intende per paradiso in terra, ma la intitola Al tempo dell’armonia (L’età dell’oro non è nel passato, ma è nel futuro). Più recentemente, Woody Allen in Midnight in Paris ci comunica che l’aspirazione a un glorioso passato ormai perduto è un concetto ricorrente nell’animo umano, ma (ahimè!) è del tutto illusorio. Qual è la tua posizione, al riguardo?

Il passato è di sicuro per me un momento di profonda fascinazione. Le atmosfere della Belle Époque sono quelle in cui tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo desiderato vivere. Tuttavia, dell’epoca contemporanea amo le battaglie, i progressi, le emancipazioni. Chi di noi potrebbe mai rinunciare all’antibiotico o all’anestesia? Immaginarlo sarebbe mostruoso. Tuttavia, in un certo modo di sentire l’arte, la bellezza, lo confesso: mi riconosco profondamente ottocentesco. E anche la mia maniera di produrre – sedendo per giornate intere in caffè affollati, a riempire pagine e pagine di taccuino – ha poco a che vedere con il nostro rapido tempo informatico e tecnologizzato.

 

Bellini proviene da una famiglia di umili origini, mentre Caillebotte da una famiglia agiata. Il compositore cresce sotto il regime borbonico, mentre il pittore in un paese dove fervono gli ideali che porteranno alla Troisième République. Il primo costretto a emigrare, l’altro no. Eppure, nonostante la sua fortuna, Caillebotte sembra molto “meno libero” rispetto al Bellini. Appare come una persona tormentata, obbligata a tenere nascoste, per gran parte del tempo, le sue passioni e i sogni più autentici di fronte all’ottusità della società e della famiglia. Contrariamente, Bellini è un predestinato: sin dall’infanzia ha un futuro ben definito e, a differenza del pittore, è sostenuto dai suoi e in particolare dal nonno. Potremmo identificare il primo Caillebotte con l’uomo comune, che non riesce a esprimersi fino in fondo perché prigioniero del pregiudizio sociale, mentre Bellini con l’uomo indipendente, fallace sì, ma autodeterminato, quello a cui tutti aspirano?

Hai colto un nodo cruciale: pur nascendo tredici anni dopo rispetto al siciliano, Gustave Caillebotte deve combattere maggiormente contro i pregiudizi della sua epoca. E non mi riferisco solo all’affermazione della sua omosessualità, ma anche della sua arte, della sua pittura innovativa, della sua anima solitaria. Bellini porta con sé la stima della sua città, della sua isola, poi dell’Italia intera – è un uomo celebre, affermato e riverito. Tuttavia, i suoi tormenti sono più interiori, più psicologici e derivano tutti dai limiti e dalle fatiche imposti dal genio: le naturali difficoltà di una natura estremamente ipersensibile e tormentata.

 

La Norma di Bellini e I piallatori di parquet di Caillebotte sono i capolavori più celebri di questi due geni. Eppure, la prima al Teatro della Scala del 1831 per il catanese e la presentazione al Salon del 1875 per il francese si tramutarono in due incredibili insuccessi. Come è stato possibile?

Succede sempre, tutte le volte in cui il verbo di un artista contraddice gli schemi comuni e le tradizioni già riconosciute. Ogni volta che un artista trova una strada nuova, è come se il vecchio gli si rivoltasse contro. È successo a Dante, a Caravaggio. A Caillebotte come a Bellini. Succede ancora oggi, anche in scrittura. Il mondo si adagia su schemi familiari, rassicuranti e accetta con diffidenza tutto ciò che lo costringe a ribaltarli, a mettersi in discussione partendo da una differente angolazione.

 

Attraverso i suoi drammi amorosi, a cominciare da Lena Fumaroli, proseguendo con Giuditta Turina e poi con Maria Malibran, viene messa in risalto l’incapacità di Vincenzo Bellini di riuscire a costruire una relazione autentica e duratura. Sembra che non ci sia spazio per niente nella sua vita, riempita dalla musica e dal suo egocentrismo. Nell’ambito professionale, la rivalità e lo spirito di competizione sono particolarmente accentuati (basti pensare al timore di essere superato da Donizetti durante l’esibizione al Théâtre-Italien). Al contrario, Caillebotte si impegna nel diffondere le tendenze del movimento impressionista, promuovendo riunioni, finanziando mostre, e aiutando economicamente gli amici pittori in difficoltà come Monet. Appare più radicato nella realtà e nello spirito del suo tempo. Entrambi vivono, però, periodi di autoisolamento e di solitudine profonda. Quando, secondo te, il processo di distaccamento dal mondo operato dall’artista si tramuta in sofferenza personale, malattia, morte?    

Il distaccamento dal mondo è necessario per un artista, ma poi consente anche un ritorno, una nuova partecipazione con questo mondo. Così è stato anche per Bellini: la solitudine creativa diventava poi, nel corso delle varie repliche delle sue opere, un momento di intimità totale, radicale con il pubblico che si recava ad ascoltarle. Naturalmente, questo non mutava il suo temperamento solitario, tendente alla riflessione, alla dolcezza, alla malinconia. Bellini è un animo sensibile, troppo per confondersi alla complessità della folla. Lo stesso vale per Caillebotte, pur promuovendo gruppi e operazioni artistiche collettive. Rimangono due cani sciolti, due esseri indipendenti fino alla morte. Tutto questo, in qualche misura, ricade poi sul piano della depressione e della tristezza personale.

 

Perché Caillebotte è un genio dimenticato?

Lo è per vari motivi: troppa originalità, troppa rottura, troppo scandalo per certi benpensanti. Lo è perché troppo diverso anche dai suoi compagni di percorso. Troppo diverso dagli Impressionisti come dai Classicisti. Troppo avanti, forse anche per noi. È sicuramente un artista di domani.

 

In alcune scene del tuo nuovo romanzo, traspare un uso dicotomico e strumentale dell’arte: collettivo/politico/ideale come possibile forma di ribellione ai regimi dispotici, individuale/epicureo per il proprio accreditamento presso i salotti frequentati dalle élite o come mezzo di seduzione per ottenere la devozione delle donne. Bellini non dà seguito al sibillino invito a unirsi alla cerchia dei carbonari intellettuali che vogliono ribaltare il governo. Spesso, invece, il desiderio di accaparrarsi l’adulazione femminile, penso a Maria Malibran, finalizza le sue esibizioni. La vanità del personaggio è aderente alla realtà?

Quando parliamo della vanità del personaggio non dobbiamo dimenticare che si trattava di un ragazzetto poco più che ventenne. La sua precocità lo porta spesso ad affrontare fughe e colpi di testa, ma dobbiamo sempre localizzare e razionalizzare: quando abbandona la Sicilia è poco più che un diciottenne solo e senza famiglia. Gli mancano riferimenti e certezze. Poi si lega agli amici, ma entro qualche anno è costretto a lasciare anche Napoli, e il suo primo amore: Maddalena Fumaroli. Molte delle sue reazioni trovano, a mio parere, giustificazione nella profonda solitudine e paura che dovette sperimentare un essere tanto giovane e inesperto della vita.

  

Quella di Bellini è anche una storia di emigrazione da Catania a Milano, passando per Napoli. In un capitolo, descrivi un breve ritorno in Sicilia del compositore, ormai all’apice del successo, e il malinconico incontro con la madre. Vi è la reciproca consapevolezza di una confidenza perduta e il forte rimpianto di un rapporto logorato dal tempo. Già durante l’infanzia avevamo assistito al primo potente distacco: per esigenze economiche, Bellini sarà costretto a lasciare la casa familiare per andare a vivere con il nonno, suo mentore. Credi che questa separazione abbia influenzato le principali decisioni della sua vita, compresa quella di partire?

Sì, assolutamente. Bellini cresce alla dura legge del distacco. Distacco dalla famiglia, dagli affetti, dagli amori, dalla sua terra. Tutte le forme di separazione e lutto esistenziale, Vincenzo le ha vissute sulla sua pelle e questo deve averlo enormemente condizionato. Ecco perché lo scopriamo sempre sul punto di fuggire: da tutto, da responsabilità, da impegni fissi, da relazioni stabili, da donne che non riesce ad amare fino in fondo. È una sorta di marchio doloroso che si porta dentro. E che ha sublimato nella meraviglia della sua musica.

 

Concludiamo. Vi è un episodio in cui il Bellini teme che il suo spettacolo venga rinviato a causa di un’epidemia di colera che imperversa su Milano. Ti sei chiesto come avrebbe vissuto il recente periodo delle restrizioni?

Malissimo, come visse le restrizioni legate al colera – morbo che poi lo avrebbe ucciso. Vi sono lettere dalle quali traspare tutta la sua insoddisfazione, la sua rabbia. Rimproveri che riceve per la sua condotta di vita pericolosa, soprattutto in una Milano ipercontaminata. E poi, troppo preso dalla sua musica, Vincenzo visse davvero male il pericolo che tutto questo finisse per bloccare il suo lavoro, le prime degli spettacoli, le esecuzioni in pubblico. In un certo senso ci somiglia. Anche in questo è un uomo che sentiamo a noi vicino.

 

 

(Luigi La Rosa, Nel furor delle tempeste. Breve vita di Vincenzo Bellini, Piemme, 2022, 360 pp., euro 18,90, articolo di Carmine Madeo)