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Altri stranieri, quelli di Julia Kristeva e Paula Fox

Uno specchio

di Elisa Carrara / 7 luglio

Cosa significa essere o sentirsi straniero? Cosa si prova ad essere estranei ai luoghi, invisibili agli altri, senza possibilità di parola, perché ridotti a un silenzio innaturale, tanto le parole appaiono diverse a chi le ascolta?

«Lo straniero è dentro di noi», scrive Julia Kristeva nel lontano 1988, «E quando fuggiamo o combattiamo lo straniero, lottiamo contro il nostro inconscio – questo improprio del nostro impossibile proprio». Una definizione affascinante e complessa proposta dalla semiologa e psicoanalista francese, nata a Sofia nel 1941 e poi trasferitasi a Parigi nel 1966, per continuare gli studi all’École pratique des hautes études. Ma è solo il punto di arrivo di una riflessione lunga e articolata.

Stranieri a noi stessi. L’Europa, l’altro, l’identità (Donzelli, 2014) inizia delineando i contorni dello straniero («figura dell’odio e dell’altro») attraverso gli ostacoli che incontra lungo il suo cammino; o meglio attraverso l’esperienza stessa dell’estraneità. L’esclusione sociale, linguistica, politica e affettiva è un esercizio quotidiano che modella e rafforza l’indifferenza, unica arma a disposizione dello straniero: la distanza, infatti, non è solo la misura dell’odio, ma anche lo spazio della resistenza agli attacchi esterni.

Il mondo dello straniero non esiste: è un non luogo sospeso, privo di presente e di futuro, in cui il ricordo di un passato che non c’è più scandisce un nuovo tempo. Non ci interroghiamo mai su cosa significhi diventare stranieri, dice Kristeva, tanto la nostra identità è costruita e radicata intorno alla profonda certezza di appartenere a un luogo e di non essere diversi. È l’altro con la sua differenza a spaventare, minacciare, a spezzare l’illusorio equilibrio della comunità, della famiglia, della coppia. E Julia Kristeva è da sempre interessata alle figure altre, alle voci dissonanti, alle vite irregolari: da Céline a Melanie Klein, da Hannah Arendt a Simone de Beauvoir, da Dostoevskij a Teresa d’Avila. È ciò che vive e sopravvive nell’ombra, nel limite, a essere oggetto delle sue analisi: ma anche le forme, il linguaggio, le idee che hanno plasmato, o meglio ossessionato, la coscienza collettiva e individuale.

Da queste premesse nasce la suggestiva riflessione intorno all’estraneità, culminata con Del matrimonio considerato come un’arte (Donzelli, 2015), in cui attraverso il racconto del suo legame con Philippe Sollers, scrittore e filosofo francese, descrive il vincolo affettivo come l’incontro/scontro tra due alterità.

Nel suo Stranieri a noi stessi (pubblicato nel 1988 e uscito in Italia due anni dopo) Julia Kristeva ricostruisce le tappe dell’atteggiamento della cultura occidentale nei confronti delle «figure storiche dell’estraneità»: dall’origine della parola onomatopeica barbaro, usata per sottolineare la lingua incomprensibile di chi non era greco, al cosmopolitismo ellenistico, fino ad arrivare all’apertura globale dello stoicismo. È poi attraverso la religione monoteista che si fa strada l’idea dell’estraneità come eccezionalità e come scelta: dalla definizione di popolo eletto, alle teorie di San Paolo e Sant’Agostino, fino alla nozione di caritas cristiana. Filosofia e religione oltrepassano il concetto politico di estraneo e concedono gli stessi diritti ai non cittadini, ma in un mondo altro, futuro, diverso da quello attuale. È solo con la Rivoluzione francese e l’abolizione dell’albinaggio che si comincerà a tratteggiare un vero e proprio diritto dello straniero in seno alla società, attraverso due principi cardine, lo jus soli e lo jus sanguinis. Ma Kristeva è interessata soprattutto alla rivoluzione culturale successiva, che a partire da Hegel e passando per Kant, giunge a Freud e al riconoscimento dell’estraneità come caratteristica che dimora in ognuno.

Si è stranieri sempre, agli altri e a noi stessi, come ha raccontato in modo diverso ma in parte speculare anche Paula Fox, scrittrice spesso trascurata dal mainstream, che ha saputo restituire attraverso i suoi romanzi il significato del sentirsi stranieri, anche all’interno della coppia. Come Otto e Sophia, i protagonisti del suo lavoro più fortunato, Quello che rimane (Fazi, 2018), sposati da tanti anni eppure estranei (a loro stessi e al mondo). Tutta la storia, come spiega Jonathan Franzen  nell’introduzione, si regge sul mistero e la paura. Ma cosa c’è di misterioso in una coppia borghese, la cui vita quotidiana viene incrinata dall’arrivo di un gatto? È l’incontro con l’altro (un animale, il marito, un vicino di casa, la nuova società che avanza) a destabilizzare Sophia. E un morso dato senza motivo, da un gatto randagio, è la ferita che fa affiorare nella vita di una coppia qualcosa di oscuro e latente.

 

 

Come scrive Julia Kristeva in Stranieri a noi stessi «l’altro ci lascia separati, incoerenti; più ancora può darci l’impressione di mancare di contatto con le nostre sensazioni, di rifiutarle o, al contrario, di rifiutare il nostro giudizio su di esse». Una nota, sempre nel libro di Kristeva, spiega che il termine freudiano unheimlich, universalmente tradotto come perturbante, sia riportato in francese con le parole inquiétante étrangeté (inquietante estraneità). Ed è proprio questa inquietante estraneità ad emergere nell’opera di Paula Fox.

«Si viene trascinati dalla vita e ci si incaglia qui o là. Un giorno ti trovi incagliato in un luogo in cui vuoi rimanere. Tutto lì. Destino, caso, fortuna»: si diventa stranieri per caso, come dice il padre di Luisa, la protagonista di Storia di una serva. In lei Paula Fox fa confluire le caratteristiche più aspre dell’estraneità: Luisa è una domestica, una presenza silenziosa che si aggira nelle case di New York. Il suo unico desiderio è mettere da parte del denaro per tornare nell’isola di San Pedro e rivedere luoghi e volti famigliari. In America si parla una lingua diversa, fatta di suoni duri e spigolosi, che tracciano in poco tempo una linea d’ombra tra lei e la madre. È vero, come scrive Julia Kristeva, che non potersi più esprimere nella lingua materna, ossia la lingua dell’infanzia e dei sogni, significa diventare orfani e avere la certezza che la propria voce non sarà mai ascoltata: «la vostra parola non ha passato e non avrà peso sull’avvenire del gruppo». Nel mondo e nella vita di Paula Fox c’è una relazione quasi simbiotica tra la parola e la figura materna, tra la ricerca semantica e il distacco dalle persone care e dai luoghi.

Esiste davvero un noi/altro? No, ci dice Julia Kristeva riprendendo Freud: «lo strano è dentro di me, quindi siamo tutti degli stranieri. Se io sono straniero, non ci sono stranieri».

Scritto prima della caduta del muro di Berlino, della fondazione dell’Unione Europea, della crisi dei rifugiati dell’ultimo decennio, prima delle guerre in Jugoslavia, dei migranti di Calais e del conflitto in Ucraina, il saggio di Kristeva anticipa il tema della diversità, che traccerà un solco profondo nella storia europea. È lei stessa ad avvertire il bisogno di aggiungere alla nuova edizione del 2014, un’introduzione che tenga conto del tempo presente e delle critiche che le furono rivolte: il problema dell’identità, che da anni ossessiona la coscienza del Vecchio Continente, può essere risolto solo accogliendo il diverso, che è in noi e fuori di noi. Non si tratta di annullare le differenze, precisa Kristeva, ma di riconoscere nella singolarità il senso ultimo del nostro essere e, perciò, dei nostri diritti.