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Libri

Epica di mondi arcaici e brutali

Intervista a Alessio Mosca, autore di “Chiromantica medica”

di Martin Hofer / 19 settembre

In un passaggio di Guida perversa al cinema (2006), Slavoj Žižek afferma che «un’esperienza troppo traumatica, violenta, o emotivamente forte, smembra le coordinate della nostra realtà. Per questo dobbiamo narrativizzarla».
Questa sensazione di spaesamento, di perdita delle certezze causata dal crollo dei “valori” tradizionali o dall’immersione nelle profondità più misteriose dell’animo umano, sembra caratterizzare tutti i nove racconti di Chiromantica medica (nottetempo), esordio letterario di Alessio Mosca che si rivela essere uno dei più interessanti del 2022.
Abbiamo rivolto all’autore qualche domanda per approfondire alcuni aspetti stilistici e tematici del libro.

 

Prima di questo esordio ti eri già fatto conoscere pubblicando su riviste online e cartacee numerosi racconti, alcuni di questi li ritroviamo anche in Chiromantica medica. Qual è stato il criterio di selezione che hai utilizzato per costruire la raccolta? Avevi in mente un’unità tematica che potesse legare i testi oppure l’hai individuata in un secondo momento, rileggendoli o confrontandoti con l’editore?

Prima di venire pubblicata da nottetempo una raccolta di racconti dal titolo Chiromantica medica aveva ricevuto una menzione alla XXXIV edizione del premio Calvino. Una prima selezione era quindi stata fatta allora. Credo che tutti i miei racconti siano accomunati da un’atmosfera, un’atmosfera pregnante che caratterizza fortemente la narrazione. Se negli altri autori questo è un elemento spesso secondario nel mio caso diventa dominante, è quindi questo il fil rouge che lega tutta la raccolta. È l’atmosfera della chiromantica medica appunto, l’inverosimile che viene preso estremamente sul serio mentre la realtà perde progressivamente di familiarità, è il perturbante freudiano. Avendo quindi un legante chiaro e trasversale a tutti i racconti ho scelto quelli che ritenevo meglio riusciti.
Stesso discorso può essere fatto per la successiva selezione avvenuta insieme a Alessandro Gazoia che in aggiunta, per dare solidità al libro, ha consigliato di eliminare le forme brevi e brevissime che erano presenti nella raccolta del Calvino. E poi c’è stata l’aggiunta di diversi inediti. Ma l’occhio era sempre lì fisso sull’atmosfera.

 

Buona parte dei racconti sono ambientati nel triangolo Roma-Abruzzo-Agro Pontino. La descrizione che fai di queste zone è sorprendente: pur trovandoci in una dimensione contemporanea o nel passato recente, veniamo introdotti in scenari arcaici, legati a rituali e a superstizioni ancestrali che regolano, talvolta in modo brutale, i rapporti tra i personaggi. Per quale motivo hai pensato a questi luoghi? Ti sei ispirato a storie che hai sentito o invece hai voluto calare un tuo immaginario letterario all’interno di un contesto che ti era già familiare?

Sono nato e cresciuto a Roma ma la mia famiglia ha origini abruzzesi, umbre, toscane e marchigiane, alcuni rami si sono stabiliti nell’Agro Pontino durante il periodo delle bonifiche. Le storie di famiglia che mi narravano da bambino avevano come ambientazione sempre il paese, la campagna, la montagna; poi per lavoro ho vissuto a Chieti. Il Centro Italia è la mia casa.
I miei nonni o i miei zii mi raccontavano come si ammazzavano i maiali, come si trattavano le bestie, mi veniva descritto il lavoro nei campi e via discorrendo, ricordo, quando andavo a trovarli, le prostitute sulla Pontina o quelle infrattate nei boschi di Spoleto; la provincia ha quindi esercitato su di me un fascino legato a un mondo perduto e misterioso, sporco, a tratti pauroso. Anche perché se la mia famiglia è di origine contadina io ho avuto una vita borghese in un quartiere residenziale della Capitale, ho quindi sempre visto queste realtà di provincia con uno sguardo distaccato.
Il mondo arcaico contadino rappresenta un immaginario sterminato e poco trattato che in ambito letterario viene prevalentemente rimosso, compatito o al massimo idealizzato, mai epicizzato, a differenza della letteratura statunitense dove gli autori riescono a fare epica della loro miseria. Forse si è tentato di fare qualcosina con il Sud Italia ma è un immaginario già stantio, col feticcio della letteratura del Sud degli Stati Uniti.
A questo va aggiunta la mia passione per l’antropologia, De Martino, Frazer, Devereux, l’etnopsichiatria, la psicoanalisi, il tentativo quindi di ritrovare il senso profondo e mitico di quei costumi liquidati spesso come folcloristici e arretrati. La letteratura italiana sembra vergognarsi dei suoi cenci sporchi, la provincia è per eccellenza il luogo da cui fuggire. La mia intenzione era invece quella di creare un’epica deformando quelle terre in modo grottesco come solo un occhio borghese può fare, un po’ alla Malaparte con Napoli per intenderci, per quanto poi Chiromantica medica sia un libro assolutamente antiborghese, spietato quantomeno nelle intenzioni.

 

L’unico racconto senza appigli temporali o spaziali – potremmo trovarci in territorio russo o in qualche isola sperduta del Nord, ma non viene specificato – è Il canto dei leviatani.
A me ha fatto pensare a On the Silver Globe (1988) di Andrzej Żuławski o ad altri film d’avventura comunemente definiti cannibal. In questo caso non abbiamo a che fare con tribù antropofaghe, ma assistiamo lo stesso a un tentativo, pagato con il sangue, di avvicinarsi a una dimensione misteriosa, quasi religiosa.

Conosco i cannibal e Żuławski ma se qualche suggestione cinematografica c’è stata è venuta più dal cinema russo, Tarkovskij, German, Zvjagincev. Sicuramente c’è Volodine. In questo racconto ho messo da parte la provincia suggestionato dalla scoperta degli Ainu e degli Evenchi, popolazioni autoctone dell’isola di Sachalin e delle Isole Curili, popolazioni di pescatori la cui cultura aveva elementi Inuit, giapponesi e russi. Questi sincretismi, questi cortocircuiti mi appassionano moltissimo, sono quindi partito da lì inserendo per l’appunto la dimensione misterica, di nuovo la chiromantica medica.

 

 Un elemento comune a quasi tutti i racconti è la presenza di una sostanza inebriante e primordiale che rende folli, selvaggi o che fa perdere il controllo di sé (il latte di pecora, il grasso, la resina, la cocaina ecc.). Qualche esempio:
«Solo un vitello era ancora in piedi. Ruminava una brodaglia perlacea che sembrava fuoriuscirgli dal muso senza sosta, che gli impiastrava i denti e gli intrugliava il pelo, colava dalle labbra come il rigurgito di un bambino – gelatina trasparente rigirata in bocca e spremuta dall’omaso, masticata, sbavata, impastata fino a farne un intruglio fermentante».
«Quella notte feci un sogno stranissimo, sognai di essere una creatura dei boschi che si nutriva di resina, stavo lì abbracciato ai pini con le labbra a ventosa poggiate sui tronchi per succhiare quella melma giallastra e appiccicosa e come una lumaca ero lento, stavo così per giorni per poi trascinarmi verso l’albero accanto».
«Un’isola sussurrata nei movimenti dei granchi o nel guscio delle cozze e di un taumaturgico grasso di balena narrato nelle forme dei banchi di pesci o nei moti delle alghe».
Si tratta quasi sempre di un elemento troppo naturale, troppo vitale per essere somministrato senza conseguenze, è come se la sua assunzione risvegliasse negli individui uno spirito dionisiaco.

Sì, senza dubbio la sostanza funge da mezzo per ottenere un’ebbrezza dionisiaca, ebbrezza epifanica e rivelatrice, è l’elemento che mette a nudo le nostre vere pulsioni, la nostra animalità, è come se la sostanza facesse crollare le nostre istanze morali, le nostre false concezioni su di noi e il mondo e facesse parlare direttamente l’inconscio. Anche in questo c’era l’idea di un attacco alla borghesia e alla contemporaneità, a una visione della vita e della propria esistenza così “cognitivista”, in cui gli individui pensano davvero di essere ciò che dicono di essere e vogliono davvero ciò che dicono di volere, in cui crediamo di essere padroni di noi stessi, di essere buoni e giusti, di essere un “Io”. In verità esiste una vita segreta, una vita violenta di desideri inconfessabili, di forze che muovono nel segreto le nostre scelte e il nostro modo di essere, una vita segreta che è più vera di quella superficiale, solo che la maggior parte di noi non ne è consapevole. Volevo quindi che alcuni personaggi si scontrassero prepotentemente con quello che credevano di volere e quello che desideravano davvero. E questa è la psicoanalisi.

 

Ti stai formando come psicoterapeuta. Oltre a citare alcuni psicoanalisti come Géza Róheim e Friederich J. Kraus, credo che la raccolta risenta molto dei tuoi studi. Ogni vicenda narrata potrebbe avere una lettura analitica, il mondo che racconti potrebbe forse essere un mondo interiore ai personaggi. Quanto conta e quale ruolo ha giocato la psicoanalisi nella stesura di Chiromantica medica?

Credo di aver risposto in parte nella domanda precedente. La psicoanalisi occupa un ruolo primario nella mia vita, è l’ambito nel quale mi sto formando e dove vorrei specializzarmi, di sicuro ha influenzato enormemente la stesura dei racconti; non tanto direttamente la scrittura, non scrivo i racconti riflettendo su una possibile interpretazione psicoanalitica, ma ha condizionato la mia persona e la mia visione del mondo.

 

Ragazze che indossano maschere come strap-on, prostitute transessuali, donne che mortificano, più o meno metaforicamente, la virilità degli uomini. Abbiamo una notevole presenza di falli appartenenti a figure femminili. Perché?

Credo che la risposta sia evidente, quello della donna fallica è il simbolo di questo momento storico. Il crollo del patriarcato e la crisi del maschio bianco etero rappresentano la vera svolta antropologica della nostra epoca, un cambio di paradigma culturale enorme che si riversa su ogni aspetto della nostra società, dalla politica, al costume, ai rapporti di potere, alle condotte sessuali e criminali (si pensi al femminicidio). Il problema è che questo fenomeno viene affrontato sempre in termini retorici e pedagogizzanti, mai da un punto di vista filosofico o psicologico. Ed è un peccato perché è così interessante, non capita tutti i giorni di toccare con mano un cambiamento così radicale, i valori portanti del mondo occidentale vengono quotidianamente attaccati e questo mette in crisi molti individui che rispondono cercando di arginare un fenomeno inarrestabile: fascismi, integralismi religiosi, jihad, Popoli della Famiglia sono quasi commuoventi nella loro lotta titanica destinata al fallimento. E dall’altra parte il progressismo, il politicamente corretto: c’è una guerra in atto che comporta una contraddizione continua, viviamo in una società mai così sessuofobica e libertina allo stesso tempo.

 

E qui abbiamo l’occasione di parlare di due racconti che costituiscono un a parte, non a caso aprono e chiudono la raccolta: “Io odio l’Ikea” e “La verità, vi prego, su Tik Tok”.
Tra questi episodi troviamo diverse analogie, sia sul piano stilistico (la scrittura si allontana dagli altri testi ed è in prima persona), che su quello tematico. I protagonisti sono due uomini benestanti – uno di famiglia borghese, l’altro arrampicatore sociale – con simpatie destrorse e una pressoché totale aderenza ai modelli della Roma reazionaria (omofobi, maschilisti, razzisti e compagnia bella).
Eppure a un certo punto li vediamo precipitare. La loro maschera da impostore si squaglia, la crisi identitaria li investe e li porta a soccombere al cospetto delle amazzoni con fallo che citavamo in precedenza.

Fin dai primi tentativi di scrittura iniziavo un racconto in prima persona per poi interromperlo e passare alla terza. Avevo l’impressione che la prima fosse inautentica, avevo bisogno di mettere una distanza dai fatti narrati per farli funzionare. Allo stesso tempo ho sempre avuto la tentazione di parlare di contemporaneità e della borghesia senza mai però sentirmi pronto: sentivo di non riuscire a inquadrarla nonostante il cogliere qualcosa di profondo della propria epoca sia uno degli obiettivi che la letteratura dovrebbe sempre porsi. Questo non sentirmi pronto è uno dei motivi per cui tutti i miei racconti erano scritti in terza persona e trattavano dell’ambiente magico-arcaico della provincia. È stato un modo per fuggire da una contemporaneità ipercomplessa, iperconnessa, estremamente mutevole e piena di contraddizioni, difficilissima da narrare. Poi, finalmente, come per magia, la prima persona è venuta fuori così come la contemporaneità e l’ambiente borghese. Questo è andato di pari passo con una maturazione stilistica: abbandonata l’idea radicale che fossero la lingua e lo stile a definire la qualità di un’opera letteraria, ho abbracciato l’idea che si potesse fare qualcosa di interessante utilizzando un parlato medio. Questi due racconti sono quindi quelli scritti più recentemente e quelli che considero i più maturi.
Nonostante questo, rifacendomi alla prima domanda, il primo e l’ultimo racconto, i racconti “borghesi”, sono comunque impregnati dell’atmosfera magico-perturbante della “chiromantica medica”. In questi due racconti, come in tutti gli altri, la realtà che percepiamo è solo apparente e c’è una verità segreta – forse sovrannaturale – da decifrare e portare a galla.

 

Guardando oltre il tuo esordio: credi di aver trovato nel racconto la tua forma prediletta o stai prendendo in considerazione altre strade per il prossimo libro?

Credo che la forma romanzo sia quella che mi è più congeniale, sono portato più a pensare a forme lunghe che brevi. Il problema è, e vado in controtendenza, che i racconti sono più facili, scrivere un romanzo fatto bene richiede una fatica enorme, una coerenza e una costanza di intenti difficili da mantenere. È vero che i racconti richiedono una perfezione stilistica e di contenuto che un romanzo non richiede, ma allo stesso tempo non è facile trovare romanzi compiuti fra i contemporanei; appellandosi alla maggiore indulgenza della forma lunga spesso vengono pubblicate opere mediocri e carenti in molti punti.
Dal mio canto ho fatto proprio quello che la maggior parte degli estimatori dei racconti condanna: ho iniziato a scrivere forme brevi per affinare la lingua, lo stile, e cominciare ad avvicinarmi a certi temi sapendo però che avrei avuto bisogno di forme lunghe per sviscerarli una volta che sarei stato pronto. Resta naturalmente il discorso che il racconto è una forma indipendente e non ancillare che merita l’attenzione e la dignità del romanzo.

 

(Alessio Mosca, Chiromantica medica, nottetempo, 2022, 144 pp., euro 14, articolo di Martin Hofer)