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Libri

Una lettura rodariana di Tiffany McDaniel

A proposito di “L’eclisse di Laken Cottle”

di Claudio Bello / 21 settembre

In Grammatica della fantasia Gianni Rodari teorizzava – recuperando una provocazione contenuta in un frammento di Novalis – la cosiddetta “Fantastica”, una scienza che si occupa cioè di studiare il funzionamento della fantasia, e di codificarla secondo le regole di una propria grammatica, alla stregua della matematica o della logica. Rodari proseguiva poi fornendo esempi pratici su come lavora l’immaginazione, mostrandone le chiavi di accesso e di ispirazione, i suoi meccanismi occulti, le strade giuste per “fantasticare al meglio”, e quelle da evitare. Al centro del suo ragionamento c’è la nozione di “binomio fantastico”, il tassello base di ogni esperienza immaginativa: la fantasia, per Rodari, nasce quando si mettono vicine due parole – e cioè due immagini, due oggetti o concetti – che sono distanti per significato l’una dall’altra. Questo binomio, questo incontro-scontro, avrà bisogno infatti di una storia che lo giustifichi, di un collegamento inatteso, o straniante; più il divario è ampio, più il binomio funziona: “cane” e “armadio”, insomma, è un buon binomio fantastico, “cane” e “gatto” invece no.

L’ultimo libro di Tiffany McDaniel, L’eclisse di Laken Cottle, pubblicato da Atlantide Edizioni come i precedenti – tra questi va citato soprattutto L’estate che sciolse ogni cosa, ormai praticamente un cult –, è un autentico, anche se involontario, manuale di Fantastica rodariana. La manipolazione della propria fantasia operata dalla scrittrice è infatti sconfinata, sia nel senso che è percepibile in ogni riga del romanzo, sia in quello, ancora più sbalorditivo, dell’ampiezza delle soluzioni narrative adoperate. L’effetto, per il lettore, è di un continuo giramento di testa da immagini – che sono sconfinate, appunto, sia per la quantità che per la qualità.

Prima di tutto, però, un accenno alla trama: Laken Cottle è uno scrittore di successo, che sta tornando a New York dalla California, dove si è recato per un incontro con una casa cinematografica; in città, ad aspettarlo, ci sono moglie e figlia – fin da subito, però, sorgono degli strani problemi a contattarle, ma d’altronde l’assenza di comunicazione, il non sapere, è insieme al binomio fantastico il fondamento dell’immaginazione umana. Come se non bastasse intanto si rincorrono voci su un terrificante fenomeno apocalittico-meteorologico, un buio che pare stia avanzando dall’Antartide verso su, risucchiando ogni cosa nella sua densa consistenza di petrolio. È la fine del mondo? Mentre il pianeta viene – un pezzetto alla volta – divorato da questo buio, Laken intraprende un nostos che ben presto comincia a rivelarsi surreale: in principio si tratta di strane apparizioni, ricordi che si confondono con la realtà, cortocircuiti mentali, poi sulla scena si palesano creature grottesche, personaggi fantasmatici, enigmi indecifrabili; quello di Laken diventa un viaggio nell’assurdo e in un universo sempre più distante da ciò che credeva di conoscere. Nel frattempo, per il lettore inizia anche un secondo viaggio, a ritroso nel passato del protagonista: via via scopriamo la storia di Laken, la sua infanzia caratterizzata dall’abbandono della madre e dalla morte prematura del padre, e poi il trasferimento da una zia dal carattere stravagante… Anche questa parte del romanzo, che inizia in maniera abbastanza “realistica”, si riempie però velocemente di elementi ambigui e perturbanti.

È proprio in questo tipo di evoluzioni narrative che si nota il lavoro sulla fantasia svolto da McDaniel. Una prima tecnica di Fantastica rintracciabile è infatti quella che potremmo definire “rovesciamento”. In che senso? Considerati i tre filoni della trama sui quali è basata anche la divisione dei capitoli (ritorno a casa, passato di Laken, avanzamento del buio), l’unico che per il lettore ha un senso e una logica sempre chiari è, paradossalmente, quello apocalittico. Il racconto della fine del mondo si ritrova così ad avere un effetto normalizzante, ordinatore per il lettore, che d’altronde riesce a raffigurarsi facilmente i suoi sviluppi: le notizie allarmanti, il cielo che si oscura in lontananza, e poi l’attesa, l’incredulità, il coraggio. L’aspetto fantastico-horror è il filo che porta avanti la storia, che non la fa disperdere troppo – un compito che di solito è affidato a parti della trama più realistiche, come dovrebbero essere, in teoria, il racconto di un viaggio o del passato di un personaggio. Ecco il rovesciamento, allora: ciò che è normale (viaggio e passato) diventa assurdo; ciò che è assurdo (apocalisse) diventa normale. (Si tratta anche di una chiara testimonianza di come il racconto apocalittico, in tempi di crisi, sia diventato “più normale della normalità”, ma questo sarebbe un altro discorso, forse riduttivo per L’eclisse di Laken Cottle). A rendere ancora più ordinati i capitoli dedicati al buio va osservato che McDaniel conferisce alla narrazione un andamento geografico: comincia con il buio che assale le periferie del mondo e arriva infine al baricento della storia, gli Stati Uniti. L’apocalisse ricalca così la cartina geografica, non procede a caso: i capitoli sul buio sono quasi un trattato di geografia apocalittica, ed è interessante indagare su come ogni luogo del mondo affronti in maniera diversa l’arrivo della fine. Questi, per esempio, sono alcuni estratti della lunga parte dedicata all’Italia:

«Entra in Sicilia, dove le arance rosse crescono nei frutteti maestosi e dove la frutta martorana, nella forma zuccherosa di fette di melone, banane e pesche, occupa gli scaffali delle pasticcerie vuote. […] Prosegue per Roma, arriva al Colosseo, dove nessun gladiatore coraggioso aspetta di sfidarlo. Prosegue per il Vaticano, per piazza San Pietro e la Basilica dove c’è il papa in piedi, come il buon pastore davanti al suo gregge che s’inginocchia in preghiera. […] A Venezia, la città dell’acqua, c’è un uomo che si accinge a suonare un pianoforte a coda di fronte alla Basilica di San Marco».

I casi di un impiego delle leggi della Fantastica più massicci si trovano però nei capitoli dedicati al viaggio di Laken. Qui la scrittrice dà vita a un vero e proprio universo altro, popolato da «streghe guerriere», «cani a quattro code», «talpe con il naso a stella». A vigere è la mescolanza ininterrotta tra oggetti, corpi e pensieri; una combinazione di elementi discordanti alla massima potenza, dentro un contesto già fantastico di per sé, che rimanda alla fiaba quanto alla tradizione narrativa americana – il libro è stato paragonato infatti al Mago di Oz. Eccolo, allora, il binomio fantastico, con un pizzico però di weird. L’unione di due elementi distanti messi insieme produce infatti effetti non solo fantasiosi, ma anche inquietanti. O meglio, macabri. Chiamiamo allora questa tecnica di Fantastica “binomio straniante”. La descrizione delle streghe guerriere, quasi cubista, ne è un esempio:

«Le sopracciglia a forma di mezzaluna non sono fissate sopra gli occhi ma ai lati, sulle tempie: sono butterate, come se non fossero fatte di peli, ma di roccia di stelle. […] Non sono belle, non con quella pelle che assomiglia a una patata bollita e sbucciata. […] Appeso a una catenina d’argento, arrotolato al mignolo di ciascuna strega guerriera, c’è un campanellino d’argento. Il batacchio di ogni campanellino ha la forma di una piccola lingua con sopra un’incisione».

Già Lovecraft (e poi i suoi emuli e successivamente ancora gli scrittori new weird, a cui McDaniel si potrebbe associare) aveva fatto qualcosa di simile, creando personaggi difficili da immaginare nella totalità delle loro caratteristiche, possibili da descrivere ma impossibili da visualizzare. McDaniel mantiene costante il suo binomio straniante per la maggior parte delle descrizioni del libro, confondendo gli elementi tra loro, oppure inserendo quel dettaglio perturbante che spariglia un insieme che in origine pareva verosimile. Un altro esempio affascinante è la descrizione della terrificante giostra, con rappresentati i quattro cavalli dell’Apocalisse, che ruota intorno alla casa della zia di Laken, ma lo sono anche quelle dei cibi, degli oggetti, delle persone stesse. Le tonalità più presenti sono quelle macabre: sangue, occhi cuciti, ferite particolari; tutto ha un aspetto parecchio corporale, e insieme parecchio metafisico. Si ritorna a Lovecraft – di cui McDaniel è sicuramente una degna erede –, al suo racconto del corpo e delle stelle, delle viscere e del cielo.

Un’ultima tecnica di Fantastica (che è quella che poi racchiude e dà un senso a tutte le altre) risiede di nuovo nella trama, e la potremmo definire, semplicemente, “coerenza finale”. In questo palcoscenico grottesco che è L’eclisse di Laken Cottle il “senso” del romanzo sembra sfuggire più volte. Ma un senso, inaspettatamente, c’è, ed è simboleggiato da una frase: «Chi racconta le storie governa il mondo». La parola “storia” qui è intesa soprattutto nel senso di “collegamento”, unione dei puntini disordinati dell’universo. La storia infatti riunisce i contrari, compie la sintesi del binomio fantastico; o, mettendola in un altro modo, conferisce valore al suo ossimoro, lo rende accettabile, reale. Non è un caso che Laken sia uno scrittore: il concetto di “raccontare una storia” assume infatti un compito sia strutturale (dare voce e coerenza al caos, anche, per lunghi tratti, creandone di ulteriore) sia morale (dare significato alla vita). Nel finale, che – del tutto tradizionalmente in un romanzo per niente tradizionale – svolge il compito di spiegare (quasi) tutto il resto, la storia di Laken Cottle viene chiarita, e anche i più pirotecnici giochi della fantasia risultano giustificati. Un’inaspettata coerenza, che però calza a pennello.

D’altronde, nella teoria della Fantastica, si potrebbe dividere l’atto della creazione in due fasi diametralmente opposte: ideazione pura e sintesi, caos e ordine. Sono il cane e l’armadio di Rodari, che finiscono appunto per sintetizzarsi in una storia: il cane che porta l’armadio in groppa, come se fosse un guscio, e che diventa la sua tana. Il romanzo di Tiffany McDaniel oscilla perfettamente tra queste due fasi, tendendo i suoi binomi fantastici (ma potremmo dire trinomi, quatrinomi e oltre) per poi regalare un senso nel finale, cioè nella storia vera e propria («chi racconta le storie governa il mondo»). Ma perché una storia sia una storia c’è bisogno appunto che questa sia pensata, sviluppata, raccontata: non abbiamo altro strumento per farlo se non la fantasia. Uno strumento che McDaniel utilizza in maniera estrema, quasi avanguardistica. In un momento in cui l’immaginazione sembra starsi appassendo per via dei troppi stimoli, dei troppi discorsi, delle troppe immagini, il successo di un testo simile ha insomma qualcosa di oracolare. Lunga vita ai radicalismi della fantasia, allora. Lunga vita alla Fantastica.

 

(Tiffany McDaniel, L’eclisse di Laken Cottle, trad. di Clara Nubile, Atlantide Edizioni, 2022, 304 pp., euro 18,50, articolo di Claudio Bello)