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Esiste ancora una “prosa letteraria”?

Una panoramica sul dibattito riguardo alla lingua della narrativa contemporanea

di Valeria Zangaro / 26 ottobre

Il primo a chiederselo è Luca Serianni. È il 1993. Ed è da allora che la critica letteraria si pone la domanda. Se mai c’è stato un tempo in cui la letteratura ha preso parte all’evoluzione della lingua, quel tempo, sostiene quella parte della critica, è oramai finito. La letteratura ha iniziato, a un certo momento, a inseguire la lingua d’uso, e non viceversa. Questo momento ha coinciso con gli anni Novanta quando, secondo Tommaso Pomilio, la narrativa, alla ricerca di nuove forme di interazione con la cultura mediale, ha iniziato a cannibalizzare, «magari alla rinfusa, codici, linguaggi, materie sempre più distanti dalla determinante alta, o soggetti a degrado (televisione, musica, pubblicità, fumetto, cronaca, videogame, paraletterature, cinema e letteratura di genere». Linguaggi tra loro diversi vengono smontati e rimontati insieme: questo è l’aspetto che caratterizza le scritture di quegli anni, con il rischio – sottolinea Filippo La Porta – che «per voler essere troppe cose […] alla fine non sia più nulla e si dissolva in un’ingegnosa sommatoria».

L’obiettivo è: scelte linguistiche e testuali sempre più estreme, fatte per farsi notare, con la conseguenza che da una lingua media, propria della narrativa degli anni Ottanta, si è arrivati a una “lingua ipermedia”, una lingua, per così dire, dell’oltre (confermato proprio da quel prefissoide iper-). Ad accorgersi per primo del cambiamento in atto è Giuseppe Antonelli, che nel 2005 conia il termine e che a sua volta richiama tre accezioni, coincidenti con tre diversi aspetti del fenomeno.

Innanzitutto, Antonelli fa riferimento a una «lingua più media di quella media»; vale a dire una lingua che da decenni, per simulare il parlato, infrange le regole della grammatica tradizionale e costruisce una «grammatica del parlato», priva di un’esigenza espressiva. Non sono perciò rari usi come il “che relativo indeclinato”, oppure “l’a me mi” o l’anacoluto, per elencarne alcuni. La lingua – artificiale, se non addirittura, artificiosa – è portata fino al suo estremo, esasperata fino al parossismo e alla caricatura, come accade in Paolo Nori, oppure al contrario fino all’iperrealismo, come invece succede in Aldo Nove. Un italiano «piucchepparlato, assolutamente non verosimigliante, che esaspera la cosiddetta funzione Gadda».

Ma per “lingua ipermedia” Antonelli intende anche una «lingua oltre la lingua media», fatta di «creatività lessicale, di figure di suono, di analogie e similitudini inattese»; un esempio su tutti: Tiziano Scarpa e il suo virtuosismo stilistico.

E, infine, Antonelli allude a una lingua influenzata dai nuovi media, anzi una «lingua in concorrenza coi nuovi media». Il testo si fa multimediale: tecniche letterarie si mescolano a quelle cinematografiche. Ne è un esempio la prosa di Carlo Lucarelli o di Nicola Lagioia, fatta di inquadrature in soggettiva e leitmotiv. La narrativa italiana fagocita, emulandole, forme di racconto provenienti dal cinema, dalla tv, dal fumetto, dalle canzoni, ma anche dai social e dal mondo di internet in generale. Da tempo la critica si chiede se abbia un senso che la letteratura emuli queste diverse forme di racconto con cui non può competere, rischiando così anzi l’appiattimento espressivo. Soprattutto se si considera che il linguaggio di queste forme di racconto (in particolare di quello televisivo e pubblicitario) è eccessivo, fatto di superlativi ed enfasi aggettivale; o al contrario (com’è nel caso del linguaggio della telefonia e di internet – l’italiano digitale o “e-italiano”) ridotto spesso alla non-parola: un linguaggio che ha visto comunicazione alfabetica e comunicazione ideografica fondersi, tanto che nel 2015 l’Oxford Dictionary ha proclamato parola dell’anno non una parola in senso stretto, ma un emoji.

Anche l’italiano usato in ambito giornalistico, e che a sua volta influenza quello letterario, ha subito una contrazione. Secondo Ilaria Bonomi, i periodi sono più brevi ma più densi di elementi nominali o di forme verbali implicite come i participi e i gerundi, e danno una sensazione di rapidità e concentrazione. Si tratta tuttavia di una densità che non ha molto peso, perché non è accompagnata in genere da una scelta lessicale ricercata: si privilegiano i valori semantici alle strutture logiche, attraverso l’impiego «di costrutti e usi sintattici che sviluppano il periodo in “orizzontale”, accumulando piuttosto che strutturando».

A questo punto si potrebbe rispondere alla domanda sull’esistenza di una prosa letteraria, sostenendo che questa, sì, esiste ed è rinvenibile in una prosa che si avvale di una lingua ipermedia, per dirla con Antonelli; una lingua che ha un rapporto di ambivalenza con la lingua media, talvolta negandola talaltra alternandola. Tuttavia, a ben guardare, la lingua ipermedia si è consumata nel momento stesso in cui è stata individuata. A confermarlo è lo stesso Antonelli, che già nel 2005, nel prologo del suo libro Lingua ipermedia: la parola di scrittore oggi in Italia, afferma che il tempo della lingua ipermedia si sta avviando alla sua fine, rimpiazzata questa da un altro tipo di letteratura, quella consolatoria, “perbene”, di bon ton linguistico. Per cui, la narrativa degli ultimi anni si muoverebbe su questi due estremi; si prefigurerebbe un panorama letterario in cui le scelte espressive e l’italiano letterario sarebbero appiattiti da questa polarizzazione. Ma è davvero così? È possibile, invece, che ci sia dell’altro?

Sì, per altra parte della critica letteraria. È il caso di Luigi Matt, secondo cui (lo spiega in L’estremo contemporaneo. Letteratura italiana 2000-2020, da cui sono tratte le citazioni successive) è opportuno sfatare l’idea di una «presunta uniformità linguistica e stilistica degli autori di oggi, che scriverebbero tutti nello stesso modo, vale a dire in un italiano piatto e incolore. In realtà, la narrativa contemporanea è caratterizzata da un’estrema varietà formale. Quello che porta, anche comprensibilmente, a falsare la percezione è il fatto innegabile che molti romanzi di successo appaiono indistinguibili tra di loro per quanto riguarda la scrittura, certamente anche a causa di un lavoro di omogeneizzazione perpetrato da molti editor. Nelle classifiche di vendita tende a emergere così un romanzo di tono medio, o più precisamente mediocre, in cui la lingua non presenta alcun elemento che la distingua significativamente da quella adoperata in quotidiani e rotocalchi». Sono perciò diverse le tendenze stilistiche individuabili: lo stile semplice, innanzitutto, usato perlopiù da quei narratori che si occupano di rappresentare le dinamiche complesse dei rapporti umani, come «Caterina Bonvicini, Andrea Canobbio, Diego De Silva, Claudio Piersanti, Alessandra Sarchi (soprattutto in L’amore normale, 2014); ma [lo stile semplice] si presta perfettamente anche alla prosa di quei romanzi che introducono elementi di natura saggistica, come si vede in buona parte della produzione di Walter Siti, o in uno dei libri più notevoli degli ultimi anni: Ipotesi di una sconfitta (2017) di Giorgio Falco».

Vi è poi quella parte della narrativa che si rifà alla tradizione, attraverso l’uso di termini desueti per innalzare il registro, ma restando comunque nell’ambito della lingua d’uso. «Il motivo principale di questa rimodulazione degli stili tradizionalisti va quasi certamente individuato nella percezione che il lettore di oggi sia mediamente meno attrezzato dal punto di vista linguistico, per cui un vocabolo o un giro di frase fortemente connotato come obsoleto potrebbe compromettere la leggibilità». Si tratta del filone narrativo odierno che si rifà allo stile di Elsa Morante: ne riprende le soluzioni narrative e tuttavia le modernizza e le semplifica. «Lo si vede bene nella più importante esponente odierna (almeno dal punto di vista della fortuna) della “funzione Morante”: Elena Ferrante». Si abbandonano gli arcaismi, presenti soltanto in quelle opere che si rifanno a forme di plurilinguismo o che usano la lingua anticheggiante in modo volutamente artificiale.

Sul fronte opposto si trova la narrazione antitradizionale, tra le cui fila vanno annoverati gli ultimi eredi degli scrittori cannibali. Resta vivo, oltretutto, il filone delle narrazioni «basate sulla riproduzione (ma sarebbe più corretto dire reinvenzione) dell’oralità, il cui modello fondamentale è costituito dai primi libri di Gianni Celati». Tra questi si annoverano il già citato Paolo Nori, ma anche Rossana Campo, Ugo Cornia, Paolo Colagrande, per dirne alcuni.

Da segnalare è pure l’espressivismo, un filone stilistico minoritario, che si avvale di tecniche ereditate dalla tradizione plurilinguista novecentesca e che ha in Gadda il suo nume tutelare. Contributi in tal senso arrivano da scrittrici come Rosa Matteucci e Silvana Grasso, e in particolare Laura Pariani, «che adotta certamente una prosa plurilinguista […] piegandola però, in modo non canonico, alle esigenze di una vena narrativa che non sembra mai accusare stanchezza».

Sopravvivono, infine, le opere definibili manieriste, «demonizzate dalla gran parte della critica sulla base di argomentazioni inconsistenti (si pensi alle categorie di necessità e urgenza, che inopinatamente emergono spessissimo come fattori che dovrebbero assicurare, chissà perché, la qualità della scrittura). Il principale artefice di macchine manieriste dei nostri giorni è certamente Michele Mari, degno erede (ma tutt’altro che pigro epigono) di Landolfi e Manganelli».

L’idea di una globalizzazione della narrativa è smentita anche dal ruolo nei romanzi italiani del dialetto, oggi in modo particolare, presente anzi in alcuni romanzi di successo. Si pensi, per esempio, ad Andrea Camilleri che ha avuto e ha «un ruolo trainante per la neodialettizzazione in atto nel romanzo».

In conclusione e alla luce di un panorama letterario tanto «frastagliato», così come definito anche nel quinto numero di «Cartaditalia», un dato è certo: tutto è in divenire.

Pertanto: «esiste ancora una “prosa letteraria?”»; è una domanda che Serianni continuerebbe a porsi, se fosse tuttora qui.

Fonte immagine: Florian Klauer su Unsplash.