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Libri

Federico Caffè, ovvero l’alternativa inascoltata

“Una civiltà possibile” di Thomas Fazi

di Marco Di Geronimo / 9 gennaio

«Se [quanto scrivo] non basterà a modificare le cose, servirà almeno a chiarire, per futura memoria, che una alternativa inascoltata è sempre esistita nel nostro Paese». In due righe, Federico Caffè riassumeva così il compito di un’esistenza intera. Una vita di sforzi intellettuali per un’Italia diversa, rispettosa della dignità dell’uomo, intransigente con la grande finanza distruttiva. Thomas Fazi ha reso onore al pensiero di Caffè con un volume divulgativo, da qualche mese in libreria con Meltemi: Una civiltà possibile.

Un libro pregevole con cui l’autore scandaglia tutta l’opera dell’economista facendola costantemente dialogare con il maestro John Maynard Keynes, con gli avversari accademici e con gli attori politici che hanno ancorato l’Italia a politiche di tutt’altro segno. Ne emerge un Caffè poliedrico: rigorosissimo nelle analisi intellettuali, polemico negli articoli per il manifesto, sempre elegante in ogni suo scritto (si sente la distanza dai toni sguaiati del dibattito di oggi, a cui sovente non si sottrae nemmeno lo stesso Fazi). Ma emerge soprattutto la passione politica del Professore abruzzese: l’amore per l’uomo, la considerazione per il suo lavoro, il dovere morale di lottare contro l’oligarchia che lo opprime.

Fazi ricostruisce il retroterra scientifico e culturale di Caffè e sottolinea la portata rivoluzionaria della Teoria keynesiana, che serviva a costruire (per bocca dello stesso Keynes) un «socialismo liberale» (oggi diremmo democratico). Tutt’altro che un modo di salvare il capitalismo da sé stesso, come a volte viene rappresentata. Nelle pagine del primo capitolo se ne respira l’influenza sulle classi dirigenti degli anni Quaranta: Caffè studia a Londra mentre al numero 10 di Downing Street si insedia il determinatissimo laburista Clement Attlee. Ma è anche un tempo dalle forti contraddizioni, con le sinistre italiane già sedotte dalla «suggestione dell’appello al mercato», e il circolo dei dossettiani, invece, permeabile alle novità d’Oltremanica.

In questo scenario comincia la carriera di Federico Caffè, «il più keynesiano degli economisti italiani». Grazie a una sapiente scelta narrativa, Fazi lo mostra sempre in guerra contro la deriva neoliberale dell’economia italiana, spesso in polemica con le sinistre politiche. Si parte da un fugace riferimento a Togliatti, paladino della lotta all’inflazione, e si arriva a una lettera di Caffè a Berlinguer in cui si perora la piena occupazione. Nel mezzo, l’affascinante contestazione da sinistra al sistema delle partecipazioni statali, del quale Caffè criticava «l’intelaiatura “privatistica”» si accompagna comunque alla strenua difesa del welfare state e dell’intervento pubblico in economia, sostenuta sulla scorta degli insegnamenti di William Beveridge. Uno studioso militante, perfettamente consapevole dell’orientamento politico che inevitabilmente influenza qualsiasi economista, il quale non è uno scienziato, ma un uomo che trae dall’osservazione dei fatti i suoi personali «criteri di desiderabilità».

Dopo una brillante prima parte di taglio teorico, le pagine centrali del volume sono dedicate alla grande crisi degli anni Settanta. Epoca di gravissime turbolenze economiche, innescate – non troppo diversamente da ora – da una crisi petrolifera di origine geopolitica, difficili da gestire e da comprendere con i soli insegnamenti di Keynes. L’inflazione, fuori controllo per il boom dei prezzi dell’energia, divenne il perno del dibattito e fu addebitata alle rivendicazioni dei lavoratori. Una trappola perversa, che produsse le teorie del «vincolo esterno», dell’«eccesso di democrazia», e perfino della «crisi fiscale dello Stato», elaborata dal marxista James O’Connor, iniziatore suo malgrado della rottamazione del pensiero interventista.

Fazi dipinge un Caffè consapevole della posta in gioco che, sconcertato dall’arretramento del dibattito, denuncia senza mezzi termini «la riaffermazione di un liberismo economico che spesso confonde la valorizzazione dell’iniziativa individuale con la salvaguardia a oltranza delle posizioni privilegiate». Ben diversa la ricetta da seguire: muovere verso la socializzazione di una larga fetta degli investimenti (nella scia dell’amato Keynes, ma in fondo anche di Polanyi), costruire uno Stato al servizio dell’uomo, che ponga al primo posto la piena occupazione, avvalersi senza timore di un sistema dei cambi flessibili.

Una civiltà possibile si chiude proprio con un’ampia riflessione sul rigido sistema monetario europeo, l’antenato dell’euro, che Fazi ricollega ai «sacrifici senza contropartite» che il PCI decise di gestire insieme alla DC. In un momento delicato per la Repubblica Italiana, nasce il compromesso storico berlingueriano, appoggiato dal sindacato di Luciano Lama e Bruno Trentin. La reazione di Caffè è dura: l’economista chiede se sia ancora lecito parlare di protezionismo economico, e denuncia una «sinistra subalterna che, per andare o restare al governo, rimette al passo le forze del lavoro senza ottenere sostanziali trasformazioni economiche». In questo humus culturale matura la scelta dell’Italia di aderire allo SME, nonostante i rischi di germanizzazione della nostra industria, e alle politiche di austerity del Piano Pandolfi.

Contro tutto questo Caffè combatté una battaglia faticosa, nella quale subì pesanti contraccolpi personali. Preso di mira dalla stampa, con lui polemizza anche Padoa-Schioppa, mentre i suoi allievi Baffi e Sarcinelli (ai vertici di Bankitalia) sono travolti da una macchinazione giudiziaria legata al crack del Banco Ambrosiano che li fa estromettere dagli incarichi dirigenziali, nell’interpretazione di Fazi anche per favorire l’ingresso italiano nello SME. È una sconfitta per il keynesismo. Caffè, pochi anni più tardi, depresso per gli eventi politici e per la pensione che lo priva della gioia dell’insegnamento, sparirà nel nulla senza lasciare traccia.

Breve, di agevole lettura ma profondo, Una civiltà possibile è un libro affascinante, ben costruito, ricco di riferimenti, impreziosito da una miriade di citazioni di Caffè e di molti altri protagonisti del dibattito economico italiano. Un’opera che gronda passione politica e che mostra la forza intellettuale e trasformativa del pensiero interventista in economia.

Negli anni, Thomas Fazi è stato tacciato di sovranismo, di vicinanza ai no-vax, di estremismo dal colore indefinito. Il lettore non troverà niente del genere in questa biografia intellettuale perlopiù onesta e rigorosa, scritta senza conformare – se non di rado – il passato alle idee del presente. Può capitare, qua e là, di incappare in qualche comparsata apparentemente immotivata di Mario Draghi, allievo di Caffè che il saggista evoca con ironica malizia proprio per misurarne lo scostamento dal pensiero del maestro. Il vero punto debole è lo spazio che Fazi, noto per le sue aspre critiche all’euro, riserva allo SME, sproporzionato rispetto alla scarsa mole e portata delle osservazioni in materia di Caffè; e infatti sono soprattutto altri i protagonisti intellettuali che Fazi cita e muove tra quelle pagine. A parte questo dettaglio non proprio trascurabile, il suo è un lavoro importante, che ricorda all’Italia e alle sue classi dirigenti il senso di un impegno intellettuale e politico per un mondo nuovo, purtroppo controcorrente rispetto ai suoi e ancor più ai nostri tempi. Eppure, a dispetto di inutili e idioti determinismi ex post, un’altra civiltà è sempre possibile.

 

(Thomas Fazi, Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè, prefazione di Luciano Barra Caracciolo, Meltemi, 2022, pp. 216, 18 euro. Articolo di Marco Di Geronimo)