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“Starry night”: a tu per tu con Federico Leoni

di Alessio Belli / 8 giugno

Non è mai facile parlare degli adolescenti. Dei loro turbamenti, dei loro sogni, delle loro paure. Non è mai facile farlo senza cadere nel banale. Come altrettanto complesso è raccontare le storie e le vite di una città come Roma. Descriverla in maniera profonda, cercando di coglierne l’essenza. Federico Leoni ha fuso il tutto in una riuscita impresa narrativa: il romanzo Starry night (Ensemble, 2013). L’autore e giornalista compone, capitolo dopo capitolo, un’opera in cui le vicende criminali e sentimentali del diciottenne Filippo sono spesso il tramite per raccontare di qualcosa di più grande e complesso, quasi come in un quadro di Van Gogh. Quasi come in una Starry night.


Starry night può essere definito un romanzo di formazione contemporaneo?

Direi di sì. Non amo molto le definizioni, ma mi rendo conto che sono necessarie e spesso inevitabili. C’è chi ha scritto che leggere Starry night è un po’ come leggere il nuovo libro di Roberto Saviano in forma di Bildungsroman, di romanzo di formazione, appunto. Un lettore mi ha detto di averci visto addirittura qualcosa di Tom Sawyer. Sono paragoni lusinghieri, ovviamente. Io credo di aver affrontato problemi tipici dell’adolescenza declinandoli in chiave contemporanea. I miei diciottenni romani, moderni adolescenti, sono ruvidi e romantici. Maneggiano troppa realtà, per così dire.


Nel tratteggiare i personaggi di Starry night, quanto ha influito la cronaca dei giorni nostri?

Non molto. Quando ho iniziato a scrivere il libro mi sono messo in cerca di spunti di cronaca che potessero arricchire l’intreccio, ma alla fine ho lasciato perdere le agenzie di stampa e i ritagli di giornale, basandomi solo su quello che avevo visto o vissuto anni fa a Roma, quando ero più giovane, e su racconti ascoltati più di recente in giro per la città. Alla fine, paradossalmente, invece di inseguire la cronaca ho finito per essere inseguito dalla cronaca: mi è capitato almeno in un paio di occasioni di ritrovare sui giornali fatti molto simili a quelli che avevo descritto nel romanzo. Questo se non altro mi ha fatto capire che la strada era giusta.


Roma si può senz’altro considerare come un’ulteriore protagonista del libro…

Sicuramente. Non volevo necessariamente scrivere un libro su Roma, ma sapevo fin dall’inizio che la città avrebbe reclamato un ruolo da protagonista. Roma non accetta di rimanere sullo sfondo: partecipa, consola, abbandona e tradisce. Vive, in definitiva. Non volevo una città da cartolina e anche se nel libro si parla del Tevere, di San Pietro e di altri luoghi noti ho preferito toccare anche zone meno conosciute e turistiche. Roma nel libro ha una coscienza divisa, quasi da psicanalisi. Credo sia così anche nella realtà, ma questa non è una città che si discute. Roma è un po’ come una madre, magari snaturata, ma pur sempre una madre.


Durante la lettura, si scorgono l’assenza e le lacune dei genitori e delle autorità che dovrebbero salvaguardare i giovani…

Molti lettori hanno sottolineato questo aspetto, quasi come se il romanzo avesse anche un intento di denuncia sociale. Io in realtà non avevo questo intento e non metterei troppo precipitosamente la croce sulle spalle dei genitori. La realtà è che c’è un’età in cui i ragazzi vogliono costruire un mondo tutto loro, e l’ultima cosa che vorrebbero è far entrare i propri genitori in questo mondo. Quando i figli attraversano questa fase i genitori, anche per ragioni anagrafiche, sono spesso presi da altri problemi: lavoro, soldi, problemi di coppia e crisi di mezza età. È molto difficile per loro forzare il muro eretto dai ragazzi, anche quando vorrebbero farlo.


Starry night tratta il mondo dei giovani con una consapevolezza e una maturità che si riflettono anche nello stile. Quali sono stati – se ci sono stati – i modelli e i riferimenti letterari durante la stesura del romanzo?

Non ci sono modelli diretti, ma io sono un lettore vorace e il mio pantheon letterario è piuttosto affollato. Non ho scritto il romanzo ispirandomi direttamente a qualche autore del passato, ma è probabile che i miei gusti di lettore traspaiano in quello che scrivo. Alcuni dei miei autori preferiti sono esplicitamente citati nel romanzo, altri riferimenti sono più impliciti. Sono un appassionato di letteratura nordamericana, da Melville a Philip Roth, passando per Hemingway, Faulkner e Paul Auster, e mi sarebbe piaciuto utilizzare uno stile statunitense, per così dire, applicandolo a una trama italiana. Alla fine, però, credo le mie origini abbiano avuto il sopravvento e che il mio stile sia abbastanza chiaramente “latino”. All’inizio del libro, non a caso, cito lo spagnolo Javier Marías, un altro dei miei autori prediletti, accanto a John Ashbery, rappresentante di spicco della così detta scuola poetica di New York: americanissimo.


Se dovessi scrivere un seguito, cosa pensi racconterebbero ai propri figli i protagonisti di Starry night?

I ragazzi di Starry night imparano una cosa e la imparano a prezzo di enormi sacrifici: alla fine quello che conta sono i sentimenti. Non si tratta di ricoprire la realtà con una patina “rosa”, ma di rendersi conto che più dei fatti conta il modo in cui li viviamo e ce li raccontiamo: la narrazione è probabilmente la maniera più autentica in cui gli esseri umani riescono a vivere la loro vita.
Un ipotetico seguito del romanzo (che non scriverò) partirebbe proprio da queste premesse. I protagonisti cercherebbero di spiegare proprio questo ai loro figli.

(Federico Leoni, Starry night, Edizioni Ensemble, 2013, pp. 296, euro 15)