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Cinema

“TIR” di Alberto Fasulo

di Francesco Vannutelli / 19 novembre

La storia sembra ripetersi. Dopo pochi mesi dalla vittoria storica di Sacro GRA di Gianfranco Rosi alla settantesima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, primo documentario, assieme a The Unknown Known, ammesso in concorso nella storia della manifestazione lagunare, al Festival Internazionale del Film di Roma il Marco Aurelio d’oro per il miglior film è andato a TIR, incrocio tra documentario e finzione al seguito di un autoarticolato lungo le autostrade italiane ed europee.

Primo lungometraggio di finzione di Alberto Fasulo, già autore del pluripremiato documentario Rumore bianco, TIR è interessante più per l’idea e le modalità di produzione che per la sua realizzazione.

Girato tutto intorno al tir del titolo al termine di cinque anni di ricerche e pre-produzione, il film di Fasulo è stato realizzato interamente sulla strada con il regista (anche direttore della fotografia e operatore di macchina) che ha vissuto in cabina con i protagonisti e due fonici. Branko Završan, attore sloveno già visto in No man’s land, ha guidato personalmente il camion dopo aver preso la patente ed essersi fatto assumere da una ditta di trasporti. La particolarità sta proprio in questo: il lavoro che svolge nel film è un lavoro vero, la sua interpretazione coincide con la vera attività e la vera vita di un camionista che viaggia per tutta Europa.

Dal sedile del passeggero seguiamo la storia di Branko, insegnante di Reijka che ha deciso di lasciare il suo lavoro in Croazia per farsi assumere da un’impresa di autotrasporti in Italia con una paga tre volte più alta. La famiglia non lo ha seguito, la moglie non capisce pienamente la sua scelta, continua ad aspettare che torni a casa, gli propone altri lavori, gli suggerisce di farsi riassumere a scuola. Non è che le condizioni siano le migliori. La sua vita è scandita da pasti consumati a bordo camion cucinati accanto agli pneumatici, docce calde fatte ogni cinque giorni o lavacri approssimativi con taniche che pendono dal rimorchio. Ritmi massacranti, pretese esagerate dei capi, tempi morti lancinanti e solitudine desolante sono la routine per Branko, a cui si aggiungono le incomprensioni con la moglie, le richieste del figlio e le rivendicazioni degli altri camionisti.

Per novanta minuti si segue Branko lungo le autostrade e i centri di consegna e carico merci. È convinto della sua scelta, il modo migliore per assistere la sua famiglia. Le telefonate di Branko con la famiglia, fatte di racconti e piccole gelosie, rinforzano la convinzione del camionista che quella del lavoro sia la scelta migliore. La lontananza da casa non è per lui condanna, ma gesto estremo di vicinanza, un sacrificio volontario e irreversibile per poter garantire il meglio ai suoi cari. Non la pensa come lui Maki (interpretato da Marijan Sestak, un vero camionista che interpreta il ruolo del camionista), il collega con cui divide il viaggio nella prima parte del film. Maki è stanco del suo lavoro, vuole tornare a casa, non vuole più essere sfruttato. Sono due modi diversi di vivere e intendere la scelta di un lavoro alienante e faticoso. Per Branko le ore infinite di guida, le pretese, la puzza dei maiali da trasportare, possono essere accettati. Maki non ce la fa più, preferisce qualcos’altro che possa definirsi normale.

A parte questo, però, c’è poco altro. L’istanza di realismo di cui il film si fa portatore non riesce a conciliarsi con il formato ibrido tra il documentario e il film vero e proprio adottato da Fasulo.

Girato negli spazi ristrettissimi della cabina, giocando con i riflessi dei retrovisori e la ridottissima profondità di campo, TIR vorrebbe essere un ritratto di un lavoro duro e alienante, che spinge sempre più lontani da casa e dagli affetti. A tratti ci riesce, ma per lo più TIR appare come un film lento e ripetitivo, sempre a rischio di cadere nella retorica del duro lavoro e della sua scarsa considerazione

(TIR, di Alberto Fasulo, 2013, drammatico, 90’)