Venti minuti molto belli

Ho trascorso venti minuti molto belli, smontato da un cocchio che mi ha restituito Cavaliere al senso di me più intimo. In un viale di bianco, di un pomeriggio silente, in attesa di chi, senza saperlo né averne voglia, ha ri-mosso fili avviluppati a un burattino rassegnato alla sua cassa.
Una diaspora dovuta, la nostra, doverosa, dopo la costrizione di ore tra lamiere e chilometri, di calori e asfalto ostile (“Faremo in tempo?”), di paesaggi, cadenze e parole tra noti e, a (letteralmente!) ben vedere, inutili a chi molto ha già visto e sentito. O, ma in fondo è uguale, ha deciso già da tempo di non contemplare più ma cominciare a dare. A essere, coniare, propalare paesaggi cadenze e parole nuove.
Ciascuno per sé eppure assieme, cocchio di lamiera allegoria dell’egida (cartacea, reale, come i corpi –  gravi – da spostare e aggregare ad altri corpi) che ci porta, diversi quanto mai, da Roma a Torino impegnati a scoprirci. Lungo la rotta inversa, poi, presi a decidere se e quanto volerci bene. Anche se non ce ne rendiamo tanto conto.
Una diaspora dovuta, dopo quelle e questa intensità: costa fatica contemplare il potenziale dei nuovi sé sperimentati altrove; pena, addirittura, mediarli a riabbracciare i noti.
Ombra, refrigerio, distanza, corpo eretto e allegro, il peso leggero di qualche sguardo furtivo intuito e forse sperato. L’offerta di due cortesie onora il Cavaliere in un quartiere non più, come per anni, ostile. Al fianco la spada immaginaria della missione compiuta (“Visto? Abbiamo fatto in tempo; rilassati, adesso, che hai da fare… Vai, t’aspettiamo qui mentre ti cambi”). Dolcissimo fardello che rende baldanti e… sì, è proprio vero: gentili.
“Giusto là dietro [perché ci ho fatto caso, svoltando, alla Stazione Ferroviaria? Perché ne ho memorizzato il tragitto a ritroso?!]. No, non è affatto distante, ci arrivate a piedi!”, il Cavaliere dice ai due turisti dall’improbabile italiano.
“Guardi, legga là, la targa [e perché mai sono  andato a scegliere quelle, tra le mille parole da leggere nell’attesa?!]. Per pura combinazione ci ha accostato proprio davanti!”, il Cavaliere dice al  panciuto autista di torpedone dalla cadenza (e dal rubizzo candore) della provincia del Sud.
Poi, l’orgoglio, il vanto, l’audacia spavalda (sarà la spada?) di volerlo ricomporre almeno per due terzi quell’equipaggio mentre s’attende il terzo che sarà, di lì a poco, protagonista. Passeranno a lui, redini e consegne. Farà bene e non lo sa. Farà bene nonostante lo tema.
In piedi, al cocchio. Io, non lei. Lei siede. Sentore d’Ottocento. Di gesti, pose, inusati ma noti a qualche memoria, a qualche cantuccio di nobiltà (d’animo almeno) dei due nonni che ho male o affatto conosciuto.
Ce n’è una anche di parole, pare. E mi sorprendo a dirlo:
“Sai, mi pare che se m’accuccio sei più cortese…”
E irrompe il sorriso, su quel viso di ragazzina, giocoliera di vesti bianche e svolazzi accaldati, troppo impegnata a inventarsi donna per sapere d’esserlo già stata, Regina del cocchio, per tutti noi.