“Mi passi a trovare più spesso?”

Puoi scommetterci. Sai, io trascorro buona parte del mio tempo tra gente che sorride di labbra. Tirate, sghembate, e con il fastidioso vezzo di non guardarti negli occhi mentre lo fa. 45 gradi in basso a destra, come i bugiardi. Sempre, in default. Certo che passo a trovarti. Ci vengo ogni volta che posso, garantito. Perché tu hai riso, non so(r)-riso. E lo hai fatto mostrandomi i denti e fissandomi negli occhi. A lungo.

Disarmante. Ho pensato che forse è così che ridono gli orsi quando si godono l’intimità boschiva o il sollievo di un agguato sventato (anche se… chi lo molesta, un orso?!). Un ritrarsi di labbra, uno svelarsi di ensable armonico mascella e -ndibola che dice, muto, “Vedi?! Potrei facilmente sbranarti, con zannette così, ma non lo faccio perché tu… tu mi stai simpatico! Fancy some honey in my den?!”.

Puoi scommetterci, che passo. Sai, io mi relaziono controvoglia e giocoforza soprattutto a gente che non ha (più) pudore. Perso, maybe lost in translation nei meandri dei mille compromessi che alla fine, vuoi o non vuoi, i capillari del pudore te li ostruiscono. Tu invece sei arrossita, quando hai colto che dietro la mia domanda sullo stato di salute del polso che ti sei fratturata picchiandolo (sì, i tempi sono cambiati…) si celava una discreta informativa sul tuo status.

Confortante. Ho ricordato che un tempo (che ho conosciuto anche io, e che mi manca)  si relazionavano così, maschietti e femminucce. In bilico sull’orlo di non detti per metà di convenzione, per metà creati ad arte che lasciavano agio ampio e vaporoso alla fantasia (casta o meno) di pregustare ciò che sarebbe, di lì al tempo definito dallo scadenziario delle mosse successive, potuto essere E quella era già (l’ipotassi invece no; mia ma non resisto, fa così tanto rétro…) esperienza d’amore condivisa.

Puoi scommetterci, che passo. Sai, io lavoro con gente molto fortunata perché fatica poco e ben guadagna eppure si permette (tutti no, e meno male!) il lusso da altri assai pagato di criticare quell’Istituzione che privilegio dopo privilegio, delega dopo delega a Enti altri delle proprie responsabilità ha sfasciato stremato svuotato svenduto fino a “Ma [a] che ti serve, la Laurea?”. E porta il muso, questa gente… Capisci, il muso, e pare che ogni suo gesto sia non dovuta prestazione (ehm, lo stipendio…) ma favore elargito a titolo di grazia. Tu no. Tu invece m’hai accolto, a un minuto dalla chiusura serale. E non hai permesso alla stanchezza che pure ti cerchiava, insolente, gli occhi di divenire facile pretesto di scortesia.

Stimolante. Perché non è vero che tutto putresce, che la vita è noia, che lavorare stracca e obnubila, che il Paese fa schifo io vado fuori e tanto sono tutti uguali e non ha senso impegnarsi e le mezze stagioni le mezze calzette e il digitale extraterrestre e che palle! Che palle, basta!

Non è vero. Semplicemente non è vero. Basta volerlo, altro. Basta essere disposti a rischiare d’esserlo e accogliere chi lo è. L’alterità non è mai gratis. L’alterità è un investimento.