“Ultraviolence” di Lana Del Rey

di / 30 giugno 2014

Anche il pop ha le sue icone. E le annesse regole. Ogni cantante un settore, un marchio, uno spicchio della fetta. A Rihanna, Katy Perry, Lady Gaga, Miley Cyrus e allegra combriccola una porzione abbondante del mercato, dei soldi di ciò che compone l'imbarazzante circo della musica commerciale. Poi c'è Lana Del Rey, e la situazione fortunatamente si fa più complessa.

Chi ha avuto abbastanza tempo libero da leggere i miei articoli in questi anni di Flanerí avrà iniziato a capire i gusti e le basi critiche con cui li ho motivati e comprendo la perplessità di alcuni nel vedere un pezzo sulla Del Ray. Eppure tutto è iniziato all'uscita di Born to Die: Ondarock decise di metterlo nella casella del Disco del Mese. Incuriosito più che sospettoso, ho iniziato ad ascoltare i brani di Elizabeth Woolridge Grant e a indagare sulla sua biografia. Fu colpo di fulmine. Musicale, ovviamente.

Sulla costruzione e sulle perfette azioni di marketing attorno Lana Del Rey non si discute: il sorvolabile esordio del 2010 sotto altro nome –  Lana Del Ray A.K.A. Lizzy Grant – e sotto sembianze leggermente diverse a quelle a cui siamo abituati, fino al restyling anni '50-'60 che le ha dato fama e celebrità, riuscendo ancora di più a farla inserire in quella linea d'ombra che scorre tra indie e main stream. Qui Lana del Rey ha compiuto un piccolo miracolo, riuscendo a diventare ipercliccata su YouTube (celebri parodie comprese), ma non sporcandosi mai di plastica commerciale. In un mondo discografico in cui dominano volgarità e ostentazione, il proporre un modello vintage e di sofisticata classe è senza ombra di dubbio un rischio notevole. Personaggio quindi costruito ancora di più a tavolino? Possibile, ma non dimenticatevi di considerare l’ago della bilancia, il vero fulcro del discorso: la musica. Perché Lana non è solo un ritratto su una rivista patinata: è la voce e l’anima di canzoni fantastiche. È l'artista pop del fruitore indie. E come se non bastasse, con Ultraviolence la posta in gioco si alza. Parecchio.

Born to Die era il biglietto da visita perfetto: bellezza estrema mostrata fin dalla copertina e ritratta fino alla magnificenza in ogni videoclip, canzoni accattivanti quanto inedite per la moda di allora: ballate dolenti, momenti ammalianti e hit di sicuro impatto. Il modello era palese: la ragazza bella, dolce e indifesa, vittima degli amori per i bad boy, in giro tra macchine e moto, spiagge e piscine. Un corredo visivo ben miscelato cinematograficamente con i brani. Da lì, la perfetta collaborazione con la colonna sonora del Grande Gatsby che ne ha accentuato la collocazione di “bella e dannata.”

E ora, con Ultraviolence? Un degno seguito o un cambio di rotta? Già la notizia di Dan Auerbach dei Black Keys come produttore ha fatto urlare allo scandalo gli avversari e spiazzato i seguaci. Poi le prime foto, i  primi shoot: una Lana sfacciata, fumatrice violenta e aggressiva. Che fine ha fatto la delicatezza romantica e quasi remissiva di “Blue Jeans” e “Video Games”? Qualche risposta poteva darla il singolo “West Coast”, filo conduttore perfetto tra i due dischi.  È il brano che più si avvicina al predecessore, ma alcuni strappi sono lampanti. Il bianco e nero del videoclip e un tessuto musicale più torvo, drammatico. Indizi che tutto Ultraviolence –  sin dalla copertina e dal titolo –  mostrerà apertamente nella sua grandezza. Specifichiamolo subito: il secondo album di Lana del Rey è una grandissimo prodotto, superiore al predecessore. Ultraviolence è in primis un suicidio commerciale: di ammaliante e luccicante c'è rimasto ben poco, anzi, nulla. I ritornelli, le orchestrazioni, le basi più ballabili sono sparite. Ultraviolence è un lungo mantello nero, depresso e oscuro, fitto di blues riff decadenti. Un sogno finito male spezzato in quindici brani. L'intensità è altissima, i tono spessi esasperati, tendenti al lirico. Nessun “Inno Nazionale” come in Born To Die, ma delusioni, schegge di speranze sparse ovunque, rapporti bruciati e persi per sempre. Ultraviolence è languido, onirico,  notturno, terso di quei pensieri che ti accompagnano per strada da solo nel cuore della notte.

Il carattere e l'impronta è più cantautoriale, intima e confidenziale. L’inizio dell’album è di profilo altissimo. In “Cruel World” la chitarra onnipresente in tutto il disco apre la danza e la performance vocale della Del Rey ci porta subito fuori dal tempo e dallo spazio. “Ultraviolence” è altrettanto bella, ma più rassegnata e al confine col dream-pop. Altro pezzo forte – già seguito a livello di video di “West Coast” – “Shades of Cool”. Il ritornello, tra impalpabile lirica e strazio d’amore, è una delle vette di Ultraviolence. Ancora più chitarra in “Brooklyn Baby” prima di arrivare a quell’altro grande momento: la citata “West Coast” dove Lana più che cantare, recita in film in cui è la protagonista perfetta e assoluta. Dopo la possente “Money Power Glory” l’atmosfera inizia a farsi rarefatta , forse anche troppe per un ascoltatore medio, ma nel complesso Ultraviolence canzone dopo canzone risulta impeccabile.

Che la svolta matura, drammatica e in molti momenti depressa di Lana Del Rey avrà delle ripercussioni è palese. Sicuramente i suoi video non verranno ostentati come una volta sui social: chi vuole far sapere a tutti della propria tristezza e malinconia? E chissà quanti ascoltatori scialbi e superficiale smetteranno di difenderla perché l’appeal e il mordente del passato è finito e le sue canzoni non sono più come quelle di una volta. Sicuramente tutto questo è stato calcato in primis dalla diretta interessata e Ultraviolence è la mannaia perfetta con cui tagliare via gli aspetti più scomodi e superficiale del mondo del pop. Con Ultraviolence Lana è cresciuta, è diventata grande. Anzi, meglio: una grande artista.

(Lana Del Rey, Ultraviolence, Polydor, 2014)

 

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