“Il grande cielo”
di A.B. Guthrie

di / 24 dicembre 2014

Perlopiù, un western ben fatto è innanzitutto una lezione di essenzialità. Nulla vi risulta esornativo o posticcio, secondo un ideale estetico direi piuttosto maschile in cui luci e ombre dello sfondo sono molto ben definite e la plasticità dei personaggi si vi staglia dura e definita.

Il grande cielo di A.B. Guthrie (Mattioli, 2014) sembra dar ragione di questa epica asciutta ma con un paio di varianti non da poco. La prima concerne il peso rilevante che vi acquista il passato, la nostalgia di ciò che nel momento in cui è attraversato è già fuori campo e strugge. Spesso è la violenza a imprimervi il suo segno; i ricordi poi confondono le cose.

L’altro è che attraversare il West nel romanzo in questione significa guadagnare con lo spazio non un territorio da conquistare come nel vecchio mito della frontiera ma un mondo da scoprire per una libertà “altra” rispetto a quella dei pistoleri. Guthrie – Premio Pulitzer per la narrativanel 1950 – difatti passa alla storia letteraria non come un semplice prosecutore di un viaggio iniziato dagli imprescindibili protagonisti di  Mark Twain ma come un anticipatore del tipo on the road – peraltro scrivendo molto meglio di Kerouac, va  detto.

Ma del western canonico nel romanzo, che a molti anni dall’ultima traduzione per Rizzoli arriva ora in una nuova versione per Mattioli 1885 dell’infaticabile Nicola Manuppelli, restano i grandi sentimenti umani messi in gioco senza fronzoli. Del resto non potrebbe permetterseli il giovanissimo Boone del Kentucky, che si decide a lasciare la casa di famiglia stufo delle botte assurde che il padre gli rifila a capriccio. Un certo giorno – ed è l’inizio del romanzo – il pugno glielo dà lui e quasi lo ammazza.

Fuori, lo aspetta un mondo sconosciuto. Non che non abbia paura di ritrovarsi da solo, lontano da casa, ma «un uomo non poteva guardarsi allo specchio se permetteva agli altri di metterlo sotto». Fatto così Boone, un ragazzino tosto. Finisce in una Louisville piena di gente, spettacolo che lo impressiona; sconfina nello stato dell’indiana, in un paesaggio diverso da quello nativo, con colline più alte e più tonde, s’imbatte in un tizio che si finirà per rivelarsi un amico importante. Boone impara a sgozzare galline e conigli e ovviamente si caccia presto nei guai. Finisce in cella accusato di aggressione e percosse (l’interrogatorio – di suo, un’impostazione del dialogo già fortemente teatralizzata – è esemplare dello stile di Guthrie: solo parole essenziali, così come lungo tutta la narrazione si stringe al massimo la cintura di aggettivi e avverbi). Ne esce presto e comincia a percorrere un territorio vastissimo che lo costringerà a crescere alla svelta. Saranno anni di incontri e di passioni. «Si imparano delle cose in tredici anni, cose che ti svuotano e ti annebbiano, e ti lasciano solo collere improvvise». Un peregrinare il suo che sarà anche un viaggio di esplorazione della terra: odori di stagni, di cavalli, di bisonti. E visioni di luce, di paesaggi, di grandi spazi da salvare. I morsi dell’inverno e il fuoco dell’estate che brucia la pelle dei cacciatori. Un canto della natura in effetti molto americano. In appendice al romanzo, un breve ritratto dello scrittore che porta dal firma del traduttore.

(A.B. Guthrie, Il grande cielo, trad. di Nicola Manuppelli, Mattioli 1885, 2014, pp. 446, euro 16,90)

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