“22, A Million”
Di Bon Iver

La prova coraggiosa di Justin Vernon

di / 27 ottobre 2016

Cover di 22, a Million di Bon Iver su Flanerí

Tralasciando i giudizi di natura soggettiva e le questioni che ruotano attorno a un artista come Bon Iver – se sia realmente un nuovo pilastro della musica pop/folk o semplicemente una moda –, è difficile non ammettere che 22, a Million sia il suo album più coraggioso. E non solo per quanto riguarda la sua carriera, che oramai sta prendendo una forma ben definita, quanto rispetto al panorama musicale odierno dove, in linea di massima, c’è una certa tendenza a un appiattimento verso uno standard anche nella musica che viene accettata come alternativa – ultimo caso, per esempio, quello dei Kings of Leon con Walls, ma sono molteplici gli episodi di gruppi che si sono omologati, a un certo punto della loro carriera: alcuni portandosi all’estremo opposto rispetto a ciò che si pensava potessero diventare o potessero rappresentare per la musica pop, trasformandosi (e non si parla di numeri, di pubblico) in modo quantomeno discutibile, come è accaduto negli anni per esempio ai Coldplay (da Parachutes a A Head Full of Dreams) o ai Muse (da Origin of Simmetry a Drones).

Uscito cinque anni dall’ultimo Bon Iver, Bon Iver e a nove dal debutto, For Emma, Forever Ago, 22, a Million, nonostante non si distacchi completamente dal secondo lavoro, mentre è molto più netta la distanza quantomeno formale dal primo, è un complessa e sofisticata architettura che rende indubbiamente ostici i primi ascolti – l’uso massiccio della voce filtrata dall’OP-1 è terreno fertile per chi ha affrontato l’album con preconcetti negativi – e che affonda le sue radici proprio nel suo predecessore: l’uso dei fiati, la voce deformata dai filtri che sembra quasi camuffarsi con l’ambiente strumentale alle spalle, un modo di intendersi musicalmente che sembra essere contemporaneamente dentro e fuori questi tempi.

Osservando come siamo arrivati a questo elettrizzante ultimo lavoro, ci troviamo di fronte a un ragazzo poco più che trentenne che dal cantautorato folk quasi del tutto acustico di For Emma, Forever Ago, con un set molto scarno, una ritmica primitiva, incentrato quasi interamente sulla melodia e sul timbro vocale è passato a un lavoro d’insieme, Bon Iver, Bon Iver, con una grossa e fondamentale presenza della batteria – dal vivo, durante il tour, venivano suonate due batterie –, un’attenzione minuziosa per tutto ciò che rispetto al primo sarebbe stato solo decorazione e contorno ma che è diventata essenza, andando poi a creare nel tempo un vero e proprio suono (dettato dai fiati, dai violini e dai synth) che ha caratterizzato e che caratterizza il suono alla Bon Iver diventando realtà stessa di Bon Iver, a un lavoro, 22, a Million, che non è precisamente una sintesi di tutto questo; lo è, in parte, ma è soprattutto un salto in avanti, la consapevolezza di poter calibrare perfettamente dieci canzoni anche esagerando in alcune scelte – inserendo elettronica, distorsioni, filtri, rimandi a un certo mondo melenso degli anni ’80. Rendendolo anche se non propriamente non-melodico (un pezzo su tutti: “8 (circle)” è tra le cose più melodiche prodotte da Bon Iver), quantomeno di difficile interpretazione, straniante, come il singolo, “33 ‘GOD’”. Un’esagerazione misurata, che trova (e qui sta la grandezza di questo lavoro) una sua giustificazione nella coerenza stilistica ed estetica.

In qualche modo, quello di Bon Iver, è un viaggio che lo ha portato a spostarsi dalla natura incontaminata alla città e alle sue ipocrisie, dal Wisconsin, dalle camicie a quadri, dai laghi, dagli orsi, ai club berlinesi, agli hipster, ai cappelli hip hop.

La partenza di 22, a Million è fulminante: tre brani di neanche tre minuti e ciascuno in modo diverso di grande intensità. “22 (OVER S∞∞N)” è una ballata leggera che sembra tirata fuori dai Sigur Rós se non fossero cresciuti in Islanda ma a Londra ed è l’anticamera della ritmica compressa e ossessiva di “10 d E A T h b R E a s T ⊠ ⊠”, che finisce nel new soul struggente di “715 – CRΣΣKS”, un brano che fa pensare al modo di fare di James Blake (da ricordare le recenti collaborazioni tra i due, “Fall Creek Boys Choir” dall’Ep Enough Thunder e “I Need a Forest Fire”, da The Colour in Anything).
La scelta di usare come singolo “33 ‘GOD’” avrebbe dovuto far pensare alle scelte artistiche che Bon Iver ha deciso di prendere: un singolo che è un non singolo e che esalta nell’intreccio di voce (qui si capisce come il filtro non è un eccesso, ma necessario per creare tensione), basso e batteria. “29 #Strafford APTS” sembra un gospel scritto da Elliott Smith mentre in 666 ʇ c’è la stessa forza della combinazione voce-ritmica che ha fatto da padrone in Bon Iver, Bon Iver (“Perth”, “Holocene”): una canzone destrutturata, presa e messa alla rinfusa, ma paradossalmente con criterio e incastrata alla perfezione in “8  (circle)”, brano più immediato dell’intero album, una sorta di gemella evoluta di “Beth/Rest”, un canto d’amore pieno di rimandi a atmosfere anni ’80. “____45_____”  è la classe dei fiati che fanno da contrappunto a una voce che cresce istante dopo istante e che sfuma come per magia in un arpeggio di banjo. Chiude come non avrebbe potuto fare meglio “00000 Million”, ballata al piano che sembra la riscrittura quasi dieci anni dopo di “4 Minute Warning” dei Radiohead.

22, A Million conferma Bon Iver come uno dei grandi musicisti del momento, un totem contemporaneo, un artista che è stato in grado di creare una propria poetica e una propria estetica, che ha generato una serie di epigoni (uno su tutti, Vincent McMorrow) e che negli anni non ha mai cercato di adagiarsi, prendendosi tutto il tempo necessario, provando e riuscendo a percorrere una strada che non permettesse di parlare degli album di Bon Iver come i classici album di Bon Iver che non aggiungono niente a Bon Iver.

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LA CRITICA

22, a Million è la consacrazione definitiva di Bon Iver. Un disco non immediato, innovativo, coraggioso. La conferma per l’artista del Wisconsin di non essere una moda, ma uno dei grandi di oggi.

VOTO

8/10

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