Cose che brillano su questa terra

Intervista a Mario Desiati, autore di “Candore”

di / 3 aprile 2017

Un mese fa circa, dalla redazione mi hanno chiesto: «Recensisci Desiati?». Pur stimando Mario, io non avevo letto il suo libro Candore (Einaudi, 2016). Ero impegnata in un altro progetto. Non mi andava di leggerlo. Dissi di no. «Allora intervistalo», mi hanno proposto qualche giorno dopo. Non capivo questa insistenza. Così ho letto il libro, e mi è piaciuto molto.

 

Perché, secondo te, dei trentenni sono così interessanti al tuo Candore?

Per i tre temi che Candore affronta: dipendenza, precarietà, irresponsabilità. Viviamo in un’epoca in cui gli individui, un po’ per colpa loro, un po’ per colpa di questo posto (l’Italia ndr) non vengono messi nelle condizioni di prendersi delle responsabilità. Non è infrequente trovare trenta-quarantenni che superando, oltrepassando la paura di essere giudicati, si buttano nell’instabilità.

 

«Non stiamo più in un’epoca di miseria sessuale, grazie anche alla pornografia», dice Roberta Tatafiore, attivista femminista e libertaria, in una frase del 1989, che riporti in epigrafe. «Le donne non possono più ignorarla, lasciarla territorio privilegiato maschile. Stiamo imparando a sporcarci le mani con questa realtà, ad accettare l’amore anche nel suo lato di carne, di odori, di umori, a maneggiare l’oggetto proibito del porno». Come mai, nel romanzo, non troviamo nessuna donna davvero interessata al piacere sessuale?

In realtà, neanche i maschi di Candore lo sono. L’Italia è un paese sessista, patriarcale nel midollo, lo siamo anche inconsciamente. Immaginare un personaggio femminile omologo a Martino Bux avrebbe implicato un altro tipo di lavoro. E poi, comunque, sarebbe stato un altro libro. Io volevo descrivere la storia di un maschio rotto, che ormai è andato oltre, ma buono. La vita di un uomo che, sulla sua pelle, vive la scoperta della felicità attraverso il cinema porno. Ho messo la citazione di Tatafiore perché le ho voluto fare un omaggio. Quando ho letto questo passaggio ho pensato a una donna che parla di porno in una maniera coraggiosa e originale, e che oggi è totalmente dimenticata.

 

Ma perché, almeno tre delle donne che Martino incontra – e anche il professore con cui fa un esame all’università – vogliono mandarlo dal medico, appena lo sentono parlare di sesso?

Perché Martino confonde i piani, mette assieme realtà e sue fantasie. Fa spesso affermazioni fuori luogo. Cosa che peraltro capita anche a me. Martino è un candido. Ma il candore non può essere capito. Più facile pensare a una malattia.

 

Il romanzo ha una struttura classica. È fatto di cinque capitoli in prima persona, più un epilogo, narrato in terza. Pare quasi un diario cui sia stato aggiunto, da parte di un narratore onnisciente, il finale della storia. È scritto in un italiano letterario, poetico («Volevo perseverare sull’orlo di quella casa tutta la vita, finché non mi avesse accompagnato in un rettangolo di terra e seppellito sotto un mare di magnolie», dice Martino, riferendosi alla fidanzata, che lo sta cacciando) una sorta di lingua inventata, bellissima; una lingua caratterizzata dall’incrocio di vari piani, il comico convive con il tragico, e l’aulico con il quotidiano. Come mai Martino, che non ambisce alla poesia e non ha fatto particolari studi letterari, non legge romanzi, ha così tanta dimestichezza con la lirica? Come mai usa parole come «spettri», «gironi», «lupi mannari», «orti segreti» a proposito dei “dannati del sesso” e paragona la sua fidanzata a un «rosso anemone che fiorisce tra gli aridi terreni a levante»?

Un po’ di cultura Martino ce l’ha. Non sufficiente, certo, a farlo parlare come parla. È un italiano che mischia i linguaggi il suo, sì. Ma è anche l’italiano dei film porno. La cosa che a lui piace è la teatralità. Il linguaggio dei primi film porno, peraltro, è fatto di questa alternanza fra linguaggio alto e linguaggio basso. Martino non è uno spettatore distratto. Il porno è la sua unica passione, e per essa è disposto a perdere la vita. Forse anche io sarei disposto a perdere la mia se avesse una sola passione totalizzante. Kant diceva che il sesso è abisso. Condivido. È perdita, ma anche esplorazione. Se è dipendenza, ossessione, come nel caso di Martino, invade anche il modo di parlare e prevale su tutto il resto.

 

«Nascevano parole che davano forma al contenuto, dal Giappone il termine “bukkake”, dall’America la parola “milf” e dalla Gran Bretagna la parola “bondage”, e dal porno poi entrarono nell’uso comune», ci racconta Martino. La dipendenza è, secondo me, un modo di dare un ordine al mondo. Martino ne mette assieme uno, di mondo, a partire dal linguaggio. È così?

In effetti a me piace una definizione di Nancy (Jean-Luc n.d.r) che definiva il porno come esposizione dell’inesponibile. La parola dunque nomina generi e pratiche che non esistono, dunque le stesse perversioni. La tassonomia è talmente precisa che si sconfina quasi nel dizionario botanico. Non esiste perversione sessuale se non le si dà un nome.

 

In Candore, a un certo punto, osservando un gruppo di prostitute Martino nota che «non c’era nulla di sensuale nei loro occhi, solo un sentimento di ripulsa». È (mi pare) una delle poche frasi in cui Martino Bux accenni alla violenza che lega i protagonisti di una relazione a pagamento. Secondo te la pornografia viene trattata e considerata nello stesso modo, al Nord e al Sud d’Italia?

La pornografia ha spesso come tramite un film. Se per i film non pornografici, lo spettatore è disposto ad accettare la sospensione dell’incredulità, e a dire, qualsiasi cosa veda: «Ah, ok. Siamo in un film!», con la pornografia non sempre chi guarda è capace, o è disponibile, a pensare che le cose che sta guardando, non possa e non debba riprodurle. E questo ha effetti dannosi. Perché ciò che vedi in un film pornografico non è sempre riproducibile nella vita reale. O comunque, bisogna mettersi d’accordo prima. E però, non tutti sono capaci di distinguere i due piani. C’è chi, nella vita reale, pensa che il sesso sia schiaffeggiare o soffocare la partner perché l’ha visto fare in un film. La pornografia non è una cosa per tutti. Se ne stanno accorgendo anche i produttori che all’inizio dei film fanno fare dichiarazioni agli attori: «Non fate questo a casa», come i lottatori del wrestling. Si rivolgono agli analfabeti sentimentali, che non sono solo i minori, ma anche gente che non è in grado di capire che il porno non è riproducibile nella realtà.
Sì, penso che ci sia un atteggiamento totalmente diverso, tra Nord e Sud. Ma non mi riferisco all’Italia, dove Nord e Sud si equivalgono. All’Europa, piuttosto. Perché il Sud, del quale il nostro paese fa parte, risente maggiormente di una certa arretratezza culturale. Parlare di educazione sessuale, in certe scuole, qui da noi, equivale a parlare di sesso e in quanto tale, una cosa di cui vergognarsi. L’effetto di questo atteggiamento è paradossale. Perché l’educazione sessuale, nelle nuove generazioni, avviene attraverso il porno. Ed è profondamente sbagliato. Chi accede al porno deve sapere a cosa sta andando incontro, e di che strumento si tratti. Questo vale per chi lo guarda, ma anche per chi lo pratica. Per ciò che riguarda le attrici, si è abbassata moltissimo la soglia di età. Che possibilità hai di scegliere davvero, se giri il tuo primo porno a diciotto anni? Non è un caso che molte e molti si perdano. Che siano riusciti a sopravvivere decentemente, in questo campo, ho in mente Valentina Nappi e Rocco Siffredi. La prima, perché ha una forte individualità. E il secondo, perché ha trovato un proprio limite. Ha detto: «Non posso girare con una ragazza che potrebbe avere l’età di mio figlio» (anche se ora pare abbia cambiato idea). Ci sono molte questioni, attorno al porno, che dovrebbero essere chiarite e di cui si dovrebbe parlare, ma siamo in un paese sessuofobico, che nasconde, punisce, o ignora il problema. La questione è aperta.

 

Che tipo di politiche, secondo te, bisognerebbe portare avanti? 

Penso che i singoli, le singole, possano fare molto per cambiare la mentalità corrente. Penso che dovremmo ringraziare, per esempio, una ragazza pugliese. Di Brindisi, mi pare. Qualche mese fa ho letto sul giornale la notizia. Ha fatto sesso con tre uomini. Loro l’hanno ricattata, dopo averla filmata. L’hanno minacciata. Avrebbero messo il filmino sul web, le hanno detto, se non li avesse pagati. Lei, invece di subire il ricatto, è andata dai carabinieri e li ha denunciati. Ha raccontato qualcosa del tipo: «Mi sono divertita, e non pensavo che mi stessero filmando. Con chi vado a letto, sono affari miei». Ecco. Penso che un atteggiamento di questo tipo possa fare molto per cambiare il modo di pensare al sesso, nel nostro paese.

 

È paradossale, mi dico io, che una ragazza che fa sesso liberamente possa essere ricattata in un paese dove: «Un popolo di maschi in accappatoio vagava da un erebo all’altro tra signorine pseudo specializzate che completavano i loro servizi con il cosiddetto happy end», come racconta il protagonista di Candore. Il contesto che descrivi è realistico, credibile. Martino Bux: un personaggio maschile – devoto al porno – che non è complice degli uomini. Come mai?

Perché non è un uomo, è un bambino.

 

Martino fa un’infinità di lavori, tutti precari. Ne ho contati almeno dieci (da operatore telefonico a lavapiatti). Cambia case, quartieri, vede un’infinità di persone. C’entra la precarietà esistenziale con la sua dipendenza, o al contrario, la provvisorietà in cui vive può diventare una risorsa per uscirne?

Credo che la precarietà sia ormai un elemento con cui bisogna fare pace. Prima si supera l’idea che la stabilità è un valore, prima si riesce a uscirne. Oggi la precarietà è anche nelle persone che hanno un lavoro fisso. Poi, da qui a dire che è una risorsa forse è un po’ troppo, però la precarietà consapevole può essere una modalità di vita con benefici inaspettati.

 

A un certo punto di Candore, Martino ha trovato una certa stabilità: compila “tabelle Excel” per un’azienda che ha contatti con la Cina. Ma non gli piace. E così, in un momento di crisi, un momento in cui gli si pone un’alternativa (fare “delazioni, minacce, vertenze”, o rinunciare) lui rinuncia. Lascia. All’inizio del libro, lo abbiamo visto corteggiare le compagne di corso, «mentre altri coetanei più giudiziosi erano presi dal furore dell’ideologia e si scagliavano contro l’allora ministro dell’Istruzione». Che relazione ha Martino con l’ideologia, e più in generale con la politica? 

Martino ammira i suoi coetanei dell’università, ma non riesce a essere come loro. E sulla delazione: è un puro. Non farebbe mai carriera attraverso la delazione. Si lascia andare alla sensualità, alla fiducia che secondo lui lega tutti gli esseri umani, gli uomini alle donne in particolare. E quella, finisce per diventare la sua ideologia.

 

Martino Bux dice tre volte “ti amo”. Alla fidanzata Fabiana, perché non lo lasci. A Luisa Montieri – la factotum di un locale dove lui lavora – perché se lo prenda, e a «Miss 161, la donna che al telefono dava l’ora esatta quando ero bambino, il mio primo amore non corrisposto». Sempre quella storia della recita?

Martino ama gli uomini, l’umanità. È un umanista totale, è pronto a dare una possibilità a tutti. Paradossalmente è l’essere meno pornografico di tutti. Vale la frase di Carmelo Bene: «Chi è stato il più grande pornografo? Kafka».

 

Martino Bux è un “inetto”. La categoria dell’inettitudine, con quel misto di comico e tragico che si trascina dietro, è sempre stata molto praticata in Italia; nei romanzi, così come nel cinema e nel teatro. Campione del genere, per quel che riguarda il Novecento, è certo Svevo. Ma tanti autori e autrici, e non solo da noi, hanno preso a pretesto l’inettitudine per raccontare una storia. Ti piace la letteratura italiana? Chi sono i tuoi autori (cosiddetti) di riferimento?

Mi piace molto, e ne leggo moltissima. Sia contemporanea che non. Il Parise dei Sillabari è fra i miei preferiti, così come Moravia e Pasolini. E poi certo, Svevo, ma anche Tarchetti, che di inetti se ne intende, e Tozzi. Kafka, Hrabal, l’Hašek di Il buon soldato sono altri autori che amo, fra gli stranieri. E Martino Bux, proprio come il buon soldato, non è uno scemo, è scemato. Perché qualcosa gli manca. Ciò che gli manca però, non è l’intelligenza o la malizia, ma la cattiveria.

 

Cinema e teatro?

Il mio preferito oggi è Lars von Trier, ma l’ultimo film che ho amato è Wild di Nicolette Krebitz, ho i brividi se ci ripenso. L’ho visto dieci volte al cinema. La gente usciva scioccata, lo hanno tempestato di critiche e lodi. A teatro ho amato molto i lavori di Fibre Parallele.

 

Perché, povero Martino Bux, fa quella fine?

Me l’hanno chiesto in molti. Perché dite che fa una brutta fine? Si risveglia e vede due persone che scopano. Esce dalla nostra visuale avvolto da una luce, mentre un uomo e una donna si danno piacere a vicenda. Vi sembra una brutta fine?

 

Cosa pensano i tuoi colleghi di lavoro, di questa tua passione?

Che sono un pervertito.

 

Martino che muore è avvolto da un alone di luccicanza. L’idea, oltre a essere bella cinematograficamente, si ritrova in altri punti della storia. Martino che osserva «devoto i fuscelli carichi di frutti» (le mandorle in attesa della battitura), e li paragona a «ovali di smeraldo». Così come gli «occhietti dorati» sull’albero, si riveleranno occhi di scoiattoli e non di topi, come pareva all’inizio della scena. Perché certe cose luccicano, e altre no?

Se tutto brillasse come faremmo a vedere le cose che brillano?

 

 

 

(Mario Desiati, Candore, Einaudi, 2016, pp. 232, euro 19)

 

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