“Esiste un mondo a venire?”
di Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro

Un saggio sulle paure della fine

di / 20 settembre 2017

Il nastro di Möbius è una superficie dotata di un singolo lato. Non presenta spigoli: il polpastrello che la percorre non incontra alcun bordo, ritrovandosi nel punto di partenza al termine di un giro completo. L’osservazione di tale meraviglia della topologia conduce alla dissoluzione di un’illusione e, di concerto, al raggiungimento di una profonda consapevolezza. Ciò che sembra procedere su binari paralleli è, a uno sguardo più attento, realtà univoca e consustanziale, parte del medesimo lato del nastro. La faccia della medaglia, per così dire, è una soltanto.

A un secolo dalla rivoluzione industriale, l’uomo occidentale inizia a percepire il disgregamento, lento ma costante, della dicotomia separativa per eccellenza, che contrappone il mondo naturale all’abitante umano, quest’ultimo emancipatosi grazie alla tecnica. La natura (lo spazio) diventa il super-organismo Gaia, mentre l’uomo si scopre forza geologica capace di alterare il proprio pianeta, inaugurando così un nuovo periodo: l’Antropocene (il tempo). Le coordinate non lasciano scampo: viviamo una fase critica, in cui l’attività antropica devasta il mondo e l’orologio ticchetta in modo preoccupante. Il nastro di Möbius su cui camminiamo sta collassando a un ritmo vertiginoso, e pare che nessuno abbia una soluzione concreta per scampare la più grande catastrofe ambientale della nostra storia. Da queste premesse e dalle Gifford Lectures di Bruno Latour nasce il saggio di Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro (pubblicato in Italia da Nottetempo nella traduzione di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri), Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine.

L’intero libro è la disamina di una tensione, esplicitata nei capitoli iniziali: essendo la fine un tema che genera speculazioni di natura essenzialmente metafisica, è possibile sviluppare un discorso che la riguardi servendosi soltanto di dati, tabelle e schemi provenienti dalle scienze empiriche? In parole povere, i due autori si chiedono come sia possibile affrontare lo spettro della fine del mondo senza unire alla ricerca scientifica lo sforzo delle humanities, in particolare filosofia e arti. Danowski e de Castro ci hanno provato, dando alle stampe (nel 2014) una panoramica, piacevolmente varia e provocante, sulle «esperienze di pensiero» prodotte a partire dalla virata del mondo occidentale verso il declino. Sebbene il libro risulti a tutti gli effetti un testo filosofico, la ricchezza degli argomenti trattati e le numerose prospettive impiegate ne accrescono il valore, la portata e la propensione al dialogo con numerose aree del sapere apparentemente lontane fra loro.

La carrellata è lunga e articolata. L’esame politico-filosofico esplora tanto le nuove frontiere del pensiero quanto alcuni capisaldi della filosofia occidentale. Ampie sezioni del saggio sono dedicate all’analisi del pensiero di Bruno Latour e di Isabelle Stengers, alle considerazioni sul cosiddetto accelerazionismo (e sul manifesto che lo definì, redatto nel 2013 da Alex Williams e Nick Srnicek), ai “realisti speculativi” e ai transumanisti come Vernor Vinge e Ray Kurzweil che prospettano un futuro post-organico, altamente ingegnerizzato e votato al raggiungimento della singolarità. Da questa intricata selva di correnti e pensieri, i due autori tentano di distillare la propria visione, alla cui radice si trova un’analisi della sinistra contemporanea, spaccata a metà fra la svolta accelerazionista e il localismo. Forti di una prospettiva decentralizzata ma comunque interessata da problemi ambientali e di governance (il Brasile), gli autori auspicano, pescando a piene mani dal bagaglio di studi di de Castro sui popoli amerindi, un futuro prossimo in cui il “divenire-indio” sarà il mantra di un nuovo popolo.

Malgrado Danowski e de Castro abbiano alcuni nemici (il capitalismo sfrenato, la Big Science corporativa e gli accelerazionisti convinti), dalla loro hanno tutta la potenza dell’immaginario narrativo. Accanto alle suggestioni filosofiche, nel libro trovano posto numerose analisi di opere narrative e cinematografiche capaci di convertire in immagini i dati scoraggianti della climatologia e della chimica e di suggerire scappatoie emotive. Dai pilastri imprescindibili – Melancholia di Lars Von Trier (2011) e La strada di Cormac McCarthy (2006) – alle produzioni d’essai (come Il cavallo di Torino di Béla Tarr e Ágnes Hranitzky), la fiction arricchisce le pagine di questo libro, mostrandosi fondamentale laddove c’è bisogno di imprimere un senso. Per cui sono romanzi e pellicole a dipingere gli scenari infiniti in cui l’uomo è senza mondo o il mondo è rimasto senza di noi, mostrando ancora una volta l’attualità delle intuizioni di Frank Kermode sulle narrazioni della fine.

Pubblicato nel 2014, Esiste un mondo a venire? risulta, a tratti, già superato. La velocità con cui si aggrava la situazione ambientale è in costante accelerazione, così come l’avvicendarsi di vicende geo-politiche che, lo diranno i prossimi anni (pochissimi, secondo un nuovo studio pubblicato da Nature), potrebbero mettere a repentaglio un sistema – l’unico, il nostro solo nastro di Möbius – già in profonda crisi. Nonostante manchino suggestioni recenti e importanti (Ben Lener, Jeff VanderMeer, Kim Stanley Robinson), il saggio di Danowski e de Castro resta un affresco potente, multi-disciplinare e articolato del pensiero filosofico-narrativo sul mondo a venire.

(Déborah Danowski, Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, 2017, pp. 289, euro 17)
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LA CRITICA

Un saggio a cavallo fra filosofia, scienze naturali e critica artistica. Un viaggio nelle paure che caratterizzano il nostro tempo (l’Antropocene) e che minacciano di portare al collasso l’unico pianeta sul quale per ora possiamo vivere (Gaia). Una panoramica, quella di Danowski e de Castro, che mette in luce la difficoltà che l’umanità affronta oggi mentre percorre la strada che porta alla consapevolezza.

VOTO

8/10

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