“Pian della Tortilla”: la Tavola Rotonda di John Steinbeck

di / 16 luglio 2018

Dopo la biografia immaginaria di Jack London, il romanticismo di F. Scott Fitzgerald e le avventure di Hemingway a Parigi, Antonio Merola prosegue il suo percorso nell’isolamento del romantico americano, e con John Steinbeck trova punti di contatto con il romanticismo europeo.

 

 

«Questa è la storia di Danny, degli amici di Danny e della casa di Danny. È la storia di come queste tre cose diventarono una sola. […] Poiché la casa di Danny fu simile alla Tavola Rotonda, e gli amici di Danny non furono dissimili dai cavalieri di quella»: con queste parole John Steinbeck cominciava l’avventura di Pian della Tortilla (1935), il romanzo che per primo incontrò il favore del grande pubblico americano. La società allora era in pieno fermento: dopo lo scoppio di una terribile crisi economica, nel 1933 il nuovo presidente Franklin Delano Roosevelt cerca di rattoppare il possibile. L’America sembrava fare acqua da tutte le parti, mentre in Europa cominciava a muoversi il germe che avrebbe portato di lì a pochi anni alla guerra. E come abbiamo già visto negli articoli precedenti, sono, questi, gli stessi anni in cui il romanticismo americano era nel pieno del proprio declino: F. Scott Fitzgerald, la stella della corrente romantica, tace dal 1925, anno di pubblicazione di Il grande Gatsby.

E forse non è un caso che a una tale impasse la letteratura del mega continente torni a guardarsi indietro: se infatti il romanticismo americano nasce con delle caratteristiche sue proprie, Pian della Tortilla torna a confrontarsi esplicitamente con il mito originario, quello europeo, o – per essere più precisi – con il romanticismo di stampo tedesco. È lì cioè che si forma e poi si esalta l’idea romantica prima di popolo e poi di nazione. Il romanzo di Steinbeck, democratico convinto, si inserisce all’interno della cornice sociale che abbiamo descritto, ma soprattutto prende le mosse da quella capacità di rattoppare che fu il New Deal rooseveltiano: i protagonisti di Pian della Tortilla sono i paisanos di Monterey, in California, ovvero indios, messicani e spagnoli che vivono alla bene e meglio: ultimi tra gli ultimi, in un periodo in cui la disoccupazione aveva toccato l’apice.

Danny, l’eroe di questa storia, è appena tornato dalla guerra, quando scopre di avere ereditato due case: è questo il momento in cui «subito egli sentì in qualche modo il peso della responsabilità di possedere».

Ecco perché Danny sceglie di condividere una delle abitazioni con l’amico Pilon. Da quel momento, comincerà una catena interminabile di subaffitti, perché Pilon inviterà nella casa un altro paisano e quello un altro ancora, e così via. Tutti i personaggi di Pian della Tortilla sembrano avere una sola preoccupazione: bere… e soprattutto, bere vino scadente, l’unico che possano permettersi. Ognuna delle loro avventure è incentrata sulla ricerca del denaro per acquistare dei galloni di vino e successivamente dal veloce dipanarsi della sbronza, che porta con sé dei disastri a cui in qualche modo i paisanos riescono sempre a rimediare. Ma dietro quest’aurea di comicità, Steinbeck avanza una forte denuncia sociale: pare quasi che sia il socialismo, o il comunismo, e non il New Deal, l’unica alternativa che sia rimasta a un’America devastata dalla crisi economica.

C’è però di più: «Per molto tempo ho desiderato trasferire nella lingua d’oggi le storie di Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. Sono storie vive anche in quelli di noi che non le hanno lette. Ma nella nostra epoca forse ci spazientiscono i termini desueti e i ritmi maestosi… Ho voluto trasporli nel semplice linguaggio del giorno d’oggi».

Era il 1976, quando Steinbeck introduceva con queste parole Le gesta di re Artù e dei suoi nobili cavalieri. E se guardiamo di nuovo all’apertura di Pian della Tortilla, scopriamo che dopotutto aveva già trovato il modo di affrontare il tema. Ecco allora che, così come il romanticismo tedesco, per esaltare il popolo, ne cercava il fondamento identitario nelle mitologie nazionali, allo stesso modo Steinbeck si rifà alla tradizione del romanzo arturiano europeo, prima inglese e poi francese: la Tavola Rotonda inventata da Robert Wace nel Roman de Brut (1155) diventa il simbolo perfetto di questa strategia. Secondo la leggenda, la Tavola è il modo in cui Artù cancellava le differenze di rango sociale tra sé e i propri cavalieri, i Dodici Pari. Pian della Tortilla trasforma allora Danny in un moderno Artù, per criticare la politica del presente attraverso la tradizione che ha fondato la cultura occidentale volgare.

Ma quella che pareva essere cominciata come l’avventura cavalleresca di un gruppo picaresco di novelli Don Chisciotte, si conclude presto con tragica serietà. John Steinbeck non voleva diventare il garante di una politica socialista: allora era un democratico che cercava di analizzare lucidamente quanto accadeva sotto i suoi occhi. E alla fine del romanzo, che riporto dalla traduzione di Elio Vittorini (1939), ancora oggi quella di riferimento, ci consegna soltanto delle domande, che in parte preannunciano la stagione della crisi dell’io (che incontreremo prossimamente quando parleremo della Beat Generation) ma che d’altra parte scomodano una ombra oscura sul mito americano della realizzazione individuale. Ci troviamo in una festa a casa di Danny; tutti il paese è coinvolto, ma davanti a quella estrema e baldanzosa uguaglianza, il nostro eroe non sembra reggere, e all’improvviso esplode:

«“Chi si batterà con me?” gridava. “Non vi è nessuno che voglia battersi con me?”. Ognuno aveva paura; quella gamba di tavolino, così viva e tremenda nel suo pugno, era diventata oggetto di terrore universale […] “Nessuno?” gridò Danny di nuovo. “Non vi è nessuno a battersi con me? Sono dunque solo nel mondo?” […] Danny si eresse ancor di più; torreggiava, e per poco la sua testa non toccava il soffitto. “Allora”, gridò “allora andrò fuori e mi batterò con l’Unico che è in grado di combattere. Affronterò il Nemico che è degno di Danny!”. Si slanciò verso la porta, a grandi passi, e barcollava un poco mentre andava. La gente terrificata gli fece largo, lo vide uscire, vide come dovette piegarsi per uscire, e rimase in ascolto, sotto il grande silenzio di ghiaccio. Udì fuori il ruggito della sua sfida. Udì la gamba di tavolino fischiare come meteora per lo spazio. Udì i passi che andavano alla carica attraverso il cortile. E poi, di dietro alla casa, dalla ravina, udì la sfida di risposta salire talmente paurosa che tutti n’ebbero la spina dorsale avvizzita di schianto come stelo di nasturzio a un soffio di gelo. Ancora adesso, quando qualcuno parla del Rivale di Danny, gli ascoltatori si guardano furtivamente intorno. Essi udirono Danny muovere all’attacco. Udirono l’ultimo grido suo di su prema sfida, poi udirono un gran colpo, e poi non udirono più nulla […] Povero Danny! Era caduto da quindici metri di altezza».

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