Chernobyl è davvero il miglior prodotto televisivo di sempre?

La serie tv HBO ideata da Craig Mazin

di / 29 luglio 2019

cover serie tv Chernobyl

Ideata e scritta da Craig Mazin (sceneggiatore, tra gli altri, di due Scary Movie, Una notte da leoni 2 e 3, e Superhero, di cui Mazin cura anche la regia), Chernobyl si compone di cinque episodi e ha già conquistato sei candidature agli Emmy di quest’anno (miglior miniserie, regia, sceneggiatura, attore protagonista, attrice e attore non protagonisti).

Il fenomeno creato da Chernobyl (si pensi che nei luoghi del disastro il turismo è aumentato del 40%) si lega a un più ampio discorso sulla ricezione estetica popolare. L’appoggio quasi unanime di quella critica considerata autorevole porta di solito gli spettatori all’elaborazione di un giudizio quasi irremovibile, formulato attraverso commenti tendenzialmente “preconfezionati” (s’intende: sicuri, sentiti e riproposti, vaghi, di difficile confutazione).

Forte del parere degli esperti – che in realtà la storia ha ampiamente dimostrato come tenda a modificarsi – il pubblico – e parte della critica – finisce per accodarsi, fino a che l’opinione diventa una realtà comunemente accettata. Viceversa, alcuni fattori contribuiscono a una reazione di contrasto col giudizio delle autorità (esempio facile: La grande bellezza riceve l’apprezzamento del mondo intero, ma il parere diffuso degli italiani è che si tratti di un film “furbo” o difettoso o noioso o scopiazzato, o semplicemente mediocre). Chernobyl raccoglie (quasi) solo recensioni piene di entusiasmo, segna punteggi record, ruba su IMDb il primato a Breaking Bad con il voto di 9.6 (l’altro si era fermato a 9.5)

A HBO è stata però rimproverata la recitazione in inglese, che a detta di qualcuno avrebbe inficiato (pur di poco) l’impatto realistico del prodotto. Questa critica – l’unica, viene da dire, capace di sopravvivere all’acclamazione generale fino a imporsi come un’opinione più o meno accorata – fornisce in sé un primo indicatore di lettura dell’opera.

Al netto della ricerca di accuratezza – nella ricostruzione cronistica, eziologica, umana, ambientale, storica – Chernobyl resta una (mini)serie a metà fra la fiction e la storia, e nemmeno con quello stampo falso documentaristico che pare essere stato volutamente scartato. L’altra critica – che si correla alla prima – è nella rappresentazione faziosa dell’Unione Sovietica, le cui colpe emergono attraverso uno sguardo a tratti perfino parodico, in quella che, a un’analisi più meticolosa e parcellizzata, rischia di apparire una rivendicazione di una superiorità innanzitutto morale. Senza volerla buttare in politica, o più “semplicemente” farne una questione ideologica, ma proprio per la spigolosità della vicenda, questo prodotto un po’ più degli altri necessita di una visione, se non particolarmente critica, quantomeno disincantata.

L’impianto dell’opera poggia sui resoconti contenuti in Preghiera per Chernobyl, saggio della scrittrice Svjatlana Aleksievič (Premio Nobel per la Letteratura nel 2015), pubblicato in Italia qualche anno fa da e/o. Le discrepanze fra realtà e invenzione restano tuttavia inevitabili, ma, dal momento che sono spesso limitate all’aspetto scientifico, risultano facilmente perdonabili (a conferma, insomma, che questa è soprattutto una fiction).

La maggior parte dei personaggi messi in scena trova comunque un proprio riscontro storico, fatta eccezione per Ulana Khomyuk, figura chiave che andrebbe a rappresentare e omaggiare le decine di scienziati che aiutarono Legasov nei mesi successivi all’esplosione. Quanto al personaggio di Ljudmila Ignatenko, moglie del pompiere Vasilij, la sua storia è riportata all’interno del libro della Aleksievič.

Attorno a queste due figure (Ulana e Ljudmila) è possibile far partire un primo tentativo di valutazione artistica della serie. Per cominciare, la scelta di comprimere un numero nemmeno quantificabile di individui all’interno di un unico personaggio appare un po’ semplificatoria, tanto più perché la strategia rischia di scivolare in un cliché situazionistico (lo stato di pericolo lasciato gestire da due persone, che sono naturalmente un uomo e una donna e che incarnano figure quasi supereroistiche filtrate da un’anima, una mente e un corpo che sono soltanto umani). Per di più, occorre sforzarsi per credere che una coppia possa risultare – e soprattutto essere considerata – sufficiente alla gestione di una vicenda di tale portata, a maggior ragione se costantemente messa sotto pressione dalle autorità russe. Ljudmila, invece, a cui Mazin dedica gran parte del terzo episodio, pare essere una sorta di catalizzatore emotivo per lo spettatore. È soprattutto questa figura, e la storia che le appartiene, a fare di Chernobyl un prodotto narrativo e non documentaristico, che consegna allo spettatore un personaggio per cui fare il tifo.

L’operazione in sé non rappresenta un male, ma se non altro è figlia di un processo narrativo veicolato da elementi e topoi che già conosciamo, una fruizione facilitata – potremmo dire sopportabile o gestibile – perché “accompagnata” (quando non proprio immediata).

I meriti maggiori dell’opera non sono tanto nell’impianto narrativo, quanto nella rievocazione storica, nella suggestione dei richiami atmosferici, nelle interpretazioni attoriali (su tutti, un bravissimo Jared Harris nei panni di Valerij Legasov), nell’uso impressionante che si è fatto del trucco.

Nel corso della prima puntata Johan Renck (che prima di questa serie aveva già diretto tre puntate di Breaking Bad e un episodio di The Walking Dead) “opprime” lo sguardo dello spettatore in alcune sequenze claustrofobiche filtrate da una fotografia post-apocalittica (nell’uso combinato del nero e del verde, quasi fossimo dentro Fallout), al punto che ci sembra possibile sentire il sapore forte del metallo nella bocca. Per gli spazi stretti, la concitazione e l’uso ravvicinato della macchina da presa, ricorda un po’ il lavoro di Nemes in Il figlio di Saul, anche se lì la regia estremamente dinamica non era circoscritta ad alcuni momenti.

Forte di questi ambienti, nonché di una storia che colpevolmente affascina tutti, Chernobyl è comunque vittima di alcuni cliché letterari e cinematografici che si palesano invero già dal primo episodio (ciononostante, probabilmente il migliore). Viene da pensare, per esempio, all’anziano seduto all’angolo in penombra, mentre tutti discutono seduti al tavolo, che prende la parola battendo il bastone sul pavimento. O ancora la ricostruzione della prima chiamata di Legasov, immediatamente messo a tacere, attraverso cui traspare in modo fin troppo evidente – e poco giustificabile nelle prime battute – l’atteggiamento insensibile e indifferente delle autorità russe.

Il finale troppo favolistico, poi, che suggella un contrasto già molto chiaro. L’uccello che stramazza al suolo – con questa espressione quasi umanizzata di dolore, resa maluccio dalla ricostruzione grafica – diventa il simbolo della natura deturpata o assassinata dall’uomo. L’ottusità molto enfatizzata dei membri del partito – possibile che i russi siano tutti stupidi o spietati, o perfino le due cose insieme? – che si oppone alla lucidità dei due scienziati, in una dinamica molto prevedibile di rifiuti e concessioni che diventa un po’ circolo vizioso delle prime tre puntate.

In aggiunta, palesi e goffi indicatori narrativi, come la domanda «è incinta?» che viene rivolta a Ljudmila quando si reca in visita dal marito morente (e, nonostante risulti plausibile la veridicità dell’episodio, in una trasposizione sarebbe stato meglio ometterlo).

A conti fatti, il terzo episodio risulta il più debole, o quantomeno il più suscettibile a critica, proprio perché sconfessa l’intento corale, si presta al pubblico con eccessivo pathos e trasforma la tragedia universale nel dramma di qualcuno (anche se diventa il simbolo di tutti). La commozione rischia di mancare soprattutto quando è marcatamente ricercata, come nella dilatazione dei tempi di dialogo fra marito e moglie, nelle inquadrature classiche delle mani o degli occhi, nell’ostilità degli ufficiali e funzionari ridotti a cattivi, nei guaiti fuoricampo delle bestie che soccombono nella quarta puntata.

Il sacrificio di una visione “dall’alto”, per mezzo di certi espedienti, non cancella i meriti dell’opera, ma ne riduce la portata, perché trasforma gli uomini in personaggi e la Storia in un racconto, che conserva la potenza originale ma finisce per gonfiarla.

 

 

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