Animali: simboli religiosi o esistenziali?

La farfalla e il ragno dal Medioevo al Novecento

di / 8 gennaio 2020

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Bestiari, animali e favole: «La favola e il nonsenso visitano la vita di tutti ma, mentre i più se ne vergognano e le cancellano come intrusione dell’irrazionale che è prudente non svelare, i poeti scoprono nell’uno e nell’altro i simboli di una vita che ha più senso di quelli che naturalmente cogliamo dal nostro quotidiano esistere. […] E come non essere stupiti quando gli animali parlano […]? Il poeta è proprio colui per il quale tutto questo assurdo è reale e la sua confessione è favola».

Queste parole di Marcello Camillucci (riportate nella raccolta a cura di Gino Ruozzi Favole, apologhi e bestiari, Bur, 2007, p. 533) illustrano efficacemente il ruolo ricoperto nel panorama culturale dagli animali, i quali, a partire già dalle favole esopiche e poi dai testi sacri, non sono declinati soltanto in personaggi realisticamente connotati, ma soprattutto in figure parlanti e antropomorfe, connesse a valori universalmente riconosciuti, il cui significato può essere ben indagato se contestualizzato in un quadro che ne ricostruisca origine ed evoluzione.

Rappresentazioni di specie animali, reali o leggendarie, s’incontrano nei bestiari medievali, dove ricorrono insegnamenti morali incentrati o sull’imitazione di una condotta ortodossa (Bestiario di Dio) o sul contrasto con una più o meno grave deviazione etica (Bestiario di Satana) ‒ come spiega la ricostruzione di Francesco Zambon, L’alfabeto simbolico degli animali, Luni, 2001, riedito da Carocci nel 2009. Poiché, tuttavia, le descrizioni contenute nei bestiari risultano spesso determinate anche dal rapporto tra uomo, animale e ambiente naturale, la cui conoscenza non di rado veniva percepita come funzionale alle utilizzazioni pratiche della vita quotidiana, il valore attribuito alla medesima creatura e l’inclusione (o l’esclusione) di specifiche fisionomie animali sono dovuti anche al differente grado di addomesticamento raggiunto (tanto più in una società in cui gli animali costituivano contemporaneamente più fattori, quali l’alimentazione, il materiale, il mezzo di trasporto o di lavoro e persino lo svago).

Buona parte del gran numero di animali che affollano i bestiari ricorre nella letteratura e, in particolare, in favole o apologhi dal significato allegorico, atti a fornire brevi analogie filosofico-descrittive con caratteristici tipi umani ‒ e talora annoverati anche nei repertori esemplari dei predicatori.

 

Il caso della farfalla

Ad esempio, la fisionomia simbolica della farfalla si reitera inalterata fino al Novecento, nonostante all’originaria connotazione religiosa si sostituisca progressivamente una dimensione esistenziale, prima implicita e poi apertamente riconosciuta e anzi, in alcuni casi, persino rimarcata da spiccata ironia.

Nell’interpretazione cristiana del Bestiario moralizzato (raccolta medievale anonima di sessantaquattro animali) quest’insetto che, attratto dalla luce incandescente, cede all’impulso di avvicinarvisi ed è arsa dal calore, viene paragonato alla figura di un peccatore arrendevole e ugualmente travolto dall’irruenza del proprio desiderio. Quest’immagine è dotata di tanta potenza iconica che, largamente impiegata già nella letteratura e nella poesia medievali (con il massimo esempio nel sonetto 19 del Canzoniere petrarchesco, dove il poeta amante è, come l’animale, irresistibilmente attratto dalla luce fatale della donna e costretto a perire nella fiamma d’amore) s’impone in contesti differenti della scena letteraria. In La farfalla e la fiamma della candela di Leonardo Da Vinci, la dinamica narrativa proposta, pur se totalmente priva dell’originario significato religioso, descrive l’ultimo grido rivolto contro la cera bollente della candela da una farfalla con le ali in fiamme: «O falsa luce, quanti come me debbi tu avere, ne’ passati tempi, miserabilmente ingannati. O si pure volevo vedere la luce, non dovev’io conoscere il sole dal falso lume dello spurco sevo?» (Aforismi, novelle e profezie, Newton Compton, 1993, p. 13).

Ancora nell’Ottocento il motivo, ormai laicizzato, permane invariato. Ad esempio, La lucernina e la farfalla di Terenzio Mamiani della Rovere non solo testimonia la ripetuta riproposizione di questa raffigurazione simbolica, ma ne conferma anche la direzione desacralizzante: una «farfalletta screziata di bei colori e innamorata di […] un bel candido lume» che, con le ali bruciate, va incontro alla morte perché «dov’è passione, non è ragione», non raffigura più specificamente la fisionomia d’un peccatore, bensì quella di un uomo accecato dal proprio ardore (Novelle favole e narrazioni, Morano, 1883, p. 311).

Una descrizione così incentrata sulla rilevanza assunta dalla componente irrazionale nelle azioni umane occorre anche nel Novecento (quando le arti, in seguito all’irruzione della psicanalisi nel panorama culturale e alla riflessione sulla caducità umana scaturita dall’instabilità storico-sociale, sembrano prediligere immagini capaci di esprimere efficacemente questi nuovi contenuti). L’intreccio narrativo è tuttavia talmente noto da divenire oggetto di alcune variazioni o ampliamenti tematici: ad esempio, nel racconto Volava la farfalletta di Mario La Cava, la vicenda è descritta mediante il filtro di un osservatore esterno e cioè di Carmelo, il personaggio protagonista che assiste al volo fatale nell’inutile tentativo di salvare l’insetto dalla cera bollente. In La farfalla posata sull’orecchio del cavallo di Marcello Camillucci, invece, il desiderio dell’animaletto (che, su indicazione del cavallo, raggiunge la fonte di luce adoperata da un uomo) è così connaturato in lui da affliggerlo meno della paura della solitudine: «[La farfalla] rassicurata, a sera, si accosta al lume / sotto il quale qualcuno medita o studia / e muore felice d’aver trovato un amico» (Favole, apologhi e bestiari, Bur, 2007, p. 534).

 

 

Il caso del ragno

Al contrario, nella raffigurazione del ragno lo slittamento dal piano religioso a una dimensione non solo progressivamente laicizzata, ma persino spiccatamente esistenziale, implica anche una considerevole variazione narrativo-strutturale. Infatti, nel Libro della natura (bestiario medievale anonimo con cinquanta fisionomie animali), esso è figura del demonio: come le sue ragnatele catturano mosche e zanzare provocandone la morte fisica, così le reti del diavolo (immagine dei peccati capitali) intrappolano l’uomo, uccidendone lo spirito.

Nelle novelle di Leonardo, invece, dell’animale è descritto il profilo di abile tessitore di tele, ma scompare la connotazione diabolica: «Il ragno, volendo pigliare la mosca con sue false rete, fu sopra quelle dal calabrone crudelmente morto» (Il ragno e il calabrone); «Il ragno stante infr’all’uve pigliava le mosche che in su tale uve si pasceva[n]. Venne la vendemmia, e fu pesto il ragno insieme coll’uve» (Il ragno e l’uva).

La raffigurazione dell’animaletto è via via arricchita da maggiori dettagli in chiave simbolica fino a divenire, alle soglie dell’Ottocento e per tutto il secolo, un’esplicita metafora del comportamento umano. È di nuovo Terenzio Mamiani della Rovere che ce ne offre esempio, in Il ragno e l’immortalità, dove la ragnatela che sopravvive all’animale diviene figura delle opere umane che vincono la morte: «non [è] al mondo materia sì fragile e forza sì piccola la quale mercé dell’industria e della perseveranza non giunga od in se medesima o nell’opere sue a immitare la vita degl’immortali» (Novelle favole e narrazioni, Morano, 1883, p. 311). E in Il ragno, lo specchio e la dama, il presbitero Giuseppe Manzoni, narrando di una ragnatela spazzata via da uno splendido specchio da cui il ragno era rimasto abbagliato, esplicita il parallelismo: «La favola quadra a coloro che s’affaticano per cose di poca durata. Nel qual numero siamo noi, che della cedevole bellezza di questa terra innamorati morti ci procacciamo comodo stato con grande sollecitudine […]; quando bell’e procacciata essendo la condizione felice, ci coglie la morte, e ne siamo scacciati» (Favole, Molinari, 1813, p. 325).

Anche in questo caso, nel Novecento si assiste a variazioni in chiave soggettivistica di questo modulo rappresentativo, su cui talora si innesta anche una componente di matrice esistenziale.

L’esempio più significativo è offerto in Il ragno e la farfalla di Ferruccio Masini, che propone, nel dialogo tra i due animali, una delegittimazione della concezione antropocentrica. Infatti, le esortazioni della farfalla («Suvvia, muoviti poltrone. […] Hai ancora da costruire un altro piccolo universo dove tu sei al centro. […] Finisci sempre non solo per tesserne altri, ma anche per immaginarli. Son convinta che anche con quelli immaginari catturi nuove prede») non persuadono il ragno, il quale, come l’uomo novecentesco, confuta le dottrine dei secoli precedenti: «Ne catturo una sola, e quella, amica mia, sono io» (Aforismi di Marburgo, Spirali, 1983, p. 110).

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(Nel testo, riproduzioni della Manticora dal Rochester Bestiary, XIII sec., f. 24v, e del Perindens tree dal bestiario di Aberdeen, XII sec., f. 65r).

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