Alla ricerca del nome perduto

“Il nome della madre” di Roberto Camurri

di / 16 giugno 2020

copertina di Il nome della madre di Roberto Camurri

A poco più di due anni di distanza dal suo fortunatissimo esordio con A misura d’uomo, Roberto Camurri si riaffaccia sul panorama della narrativa italiana indipendente con Il nome della madre (NNEditore, 2020).

I due libri conducono il lettore nel medesimo universo narrativo: dal punto di vista formale, giacché si può ormai dire a pieno titolo che Camurri ha sviluppato una voce, l’ha svezzata e l’ha fatta propria; ma anche dal punto di vista contenutistico, nel momento in cui i due romanzi condividono un obiettivo di ordine analogo, nonché lo stesso panorama emotivo, oltre che geografico.

L’obiettivo di Il nome della madre è il più antico, difficile del mondo: indagare a fondo i rapporti tra gli uomini e le loro emozioni, e sviscerare il ruolo del tempo, che passa e non guarda in faccia nessuno, che lascia ferite e tracce incomprensibili da decifrare, che a volte richiedono tutta una vita per essere capite. Un romanzo, insieme, di formazione, de-formazione e ri-formazione: la storia della nascita, dello sviluppo e dell’accettazione di una di quelle ferite.

La moglie di Ettore è se n’è andata senza dare spiegazioni, lasciandolo a fare i conti con i ricordi e con Pietro, figlio poco più che appena nato. Lui è un uomo tutto d’un pezzo, un lavoratore d’officina d’altri tempi. Costruisce le cose e le case, ma questo non basta: sente il peso dell’assenza di Lei, lo sente insopportabile perché è dura fare i conti con qualcosa che non ci è stata data la possibilità di capire. Così, Ettore oscilla tra l’assunzione del senso di colpa su di sé e la rivendicazione della propria innocenza, del suo essere vittima; il padre non riesce a lasciar andare il ricordo di Lei, perché rivede i suoi occhi, le sue espressioni in quelli di suo figlio.

Pietro cresce senza la madre, che si trova ad avere, proprio per questo, un’ascendente ancora maggiore su di lui. Lo vediamo, già alle scuole elementari, fare i conti con la solitudine, cercare di capirla, calzarla come un vestito: un’operazione, si sa, molto difficile anche per i “grandi”. Il rapporto padre-figlio non si compensa, perché fondato sulla mancanza e sulla negazione, e si sviluppa tra aggressività e reticenza, tra botte e silenzi. La ferita originaria ne crea altre, come cellule in metastasi, e il resto lo fa il tempo che passa: non serve, come nelle belle storie, a rimarginarla, ma contribuisce ad allargarla.

Una voragine si apre tra Pietro e suo padre, tra Pietro e la realtà: è allora che Pietro inizia a vedere i fantasmi, il fantasma di sua madre, non ne ha paura ma lo insegue. Servirà tutta la vita per lasciarlo andare, per liberarsi.

Il nome della madre è la storia di questo liberarsi faticosissimo. La vita dei due uomini in rapporto tra loro è segnata da un’assenza condivisa, ma Ettore è fuori tempo massimo per agire. Sarà, allora, Pietro a diventare parte attiva nella chiusura del cerchio. Per farlo, dovrà scavare dentro di sé: capire che la Madre che lui ha in testa forse non esiste, se non nella sua testa; capire che tutta la distanza che lo separa dal padre non l’ha creata lui; capire che Miriam, l’amore della sua vita, non è sua madre, ma che ugualmente gli dà tutto l’amore che ha, e che un giorno potrebbe, lei stessa, essere un’altra madre, la madre di suo figlio.

È Pietro il centro di Il nome della madre, tutto si irradia da lui e a lui tutto torna: Camurri scrive la storia di un’interiorità guasta che prova a guarire mentre si scopre. La scoperta avviene grazie a una scrittura analogica e spigolosa, che chiede fiducia e pazienza, che ci chiede di accordarci con calma alla sua voce, per uscirne ricompensati: per farlo, bisogna credere ai fantasmi insieme a Pietro, bisogna guardare negli occhi la Strega di Fabbrico con lui, senza averne paura.

Così, il rapporto tra Pietro e suo padre cresce d’intensità, fino alla catarsi: all’inizio quelle sigarette per atteggiarsi, che ricordano un altro figlio in crisi con il padre, lo Zeno Cosini di Svevo; poi, però, su queste fondamenta si innestano le debolezze e l’umanità di Ettore – un padre che potrebbe essere stato scritto dal John Fante di La Confraternita del Chianti – e allora, per magia, ci ritroviamo a fare il tifo per loro.

Un rapporto problematico, da scalare come un 4000, direbbe il Paolo Cognetti di Le otto montagne, altra storia di un padre e di un figlio che cresce.

Allo stesso modo, è denso e frastagliato il rapporto di Pietro con Miriam, percorso da continue tensioni e riavvicinamenti, spesso narrati in maniera ellittica, come nei racconti di Carver: dal liceo, dalla convivenza difficile, dalla nascita del loro bambino imparano davvero, a loro spese, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Su Pietro aleggia poi lo spettro di Gaia, che rappresenta tutte le altre possibilità – e dunque, anche, nessuna – e che pare proseguire il discorso sulla Fedeltà avviato da Marco Missiroli non troppo tempo fa.

Una cosa che non cambia mai, nonostante il tempo, c’è: Fabbrico. Il paese natale di Ettore, Pietro e Miriam (e, naturalmente, di Camurri) è sempre lo stesso, addirittura tra un libro e l’altro: luoghi come il bar della vecchia Bice, per dirne uno, sono defluiti da A misura d’uomo a Il nome della madre, come fossero i custodi delle storie che Camurri ci racconta. Fabbrico è un magnete che attrae e respinge, ma con cui, in ogni caso, Pietro dovrà fare i conti: esattamente come la Madre.

Così, il paesaggio della Pianura Padana, quei paesi disseminati in mezzo ai campi, quella nebbia e quei colori diventano il correlativo oggettivo di una condizione, di un processo: quello di ritorno e chiusura di un ciclo. Il paesaggio della Bassa parla, ha una sua voce, ha l’espressività e il lirismo delle Langhe di Pavese in La luna e i falò: come Anguilla al suo paese, Pietro dovrà fare ritorno a Fabbrico, dovrà fermarsi per andare avanti.

Le citazioni non sono sterilmente accumulate: servono per capire che, a scrivere l’interiorità, o almeno a indagarne qualche angolo, Camurri non è stato il primo e non sarà l’ultimo; tuttavia, con Il nome della madre, e dopo l’inabissamento fino alle radici dell’amicizia di A misura d’uomo, è nata una nuova voce, forte e vera, che ha già trovato il suo posto d’onore nel coro: nessuno glielo porta più via.

(Roberto Camurri, Il nome della madre, NNEditore, 2020, pp. 176, euro 17, articolo di Emanuele Pon)

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