Il testa-coda di Martin Amis

A proposito di “Money” e di “La vedova incinta”

di / 20 luglio 2020

Copertina di Money di Amis

Lo scorso inverno, alla notizia della pubblicazione prossima di una nuova opera di Martin Amis, cominciò rimbalzare un articolo del Guardian scritto qualche mese prima, nell’agosto del 2019, un giorno prima che l’autore compisse settant’anni. L’articolo, firmato eloquentemente da “John Self”, metteva in classifica, dal peggiore al migliore, tutti i quattordici romanzi dello scrittore inglese.

Una volta letto il firmatario, è facile indovinare l’assegnazione del primato anche senza scorrere fino in fondo. Il primo posto va naturalmente a Money (1984, pubblicato in Italia da Einaudi), da cui l’articolista si ispira per il proprio pseudonimo – John Self, appunto, nome parlante del protagonista e narratore del romanzo.

Un romanzo, Money, che valse a Amis il primo grande successo – un successo mai dimenticato e suggellato anche dall’inserimento nella celebre lista del TIME, che raccoglie i cento migliori romanzi in lingua inglese scritti tra il 1923 e il 2010. Una lista in cui, peraltro, compare anche Kinglsey, papà di Martin, con un romanzo pubblicato esattamente trent’anni prima di Money e intitolato Lucky Jim. Figlio d’autore, dunque, Amis si è poi imposto definitivamente come una delle voci più brillanti e autorevoli del panorama contemporaneo con Territori Londinesi (1989), La freccia del tempo (1991) e soprattutto L’informazione (1995).

Per provare a spiegare il successo di Money, potremmo iniziare col dire che Money è il grande romanzo del Ventesimo secolo – sul Ventesimo secolo. È facile obiettare: Ce ne sono stati tanti. È facile ed è vero. Del resto, il Ventesimo secolo ci ha ridimensionati, ci ha sconfitti, ci ha distrutti: siamo tutti, direttamente o indirettamente, figli del secolo più destabilizzante della storia dell’Uomo. Il più destabilizzante e il peggiore che ci sia stato. Per cui al racconto di quel tempo non si è nemmeno “portati”: si è costretti. E ognuno lo racconta a suo modo – è proprio questa la più banale e imprescindibile verità del Novecento: che siamo tanti io che parlano e raccontano tutti la stessa storia che si disgrega. E se questo è un libro del Ventesimo secolo, allora non può che esprimere il punto cruciale su cui è sembrata muoversi la critica del romanzo da un certo momento in poi: la scomparsa della trama in senso classico, qui annichilita in una serie di numerosissime informazioni e sensazioni del protagonista.

Un surplus di input che il lettore fatica a gestire, sotto cui resta piacevolmente sommerso, stordito come dopo un fiume di alcol: in bilico in una storia che c’è, esiste, e di cui si ha un quadro confuso e ingannevolmente euforico che si comprenderà appieno solo il giorno dopo. Il Guardian scrive: «Martin Amis mostra che lo stile non è qualcosa che aderisce a una storia: lo stile è la storia». Per cui, scrollandoci di dosso i pregiudizi di questa espressione così stigmatizzata, è giusto dire che questo romanzo è innanzitutto un esercizio di stile: la modellazione continua e infaticata della voce del narratore.

Money si configura come una sorta di Satyricon moderno, con le stesse tre tematiche a comporre il filo conduttore degli eventi: i soldi, il sesso, la morte.

Nome parlante come quasi tutti gli altri presenti nel romanzo, John Self è un personaggio egoista, egocentrico, maschilista, menefreghista ma estremamente franco con il lettore – a cui si rivolge direttamente, spesso chiamandolo “fratello”/“sorella”. Il suo desiderio di raccontarsi è un desiderio di comprensione, così come tutte le sue bassezze nascondono una profonda solitudine dalla quale non c’è via di uscita – se i soldi né il sesso possono esserne rimedio, allora cosa?

Egli incarna la verità delle parole: «i soldi non fanno la felicità» – e lo fa anche nell’evidenza delle (apparenti) meschinità di questo pensiero, nella manifestazione e nell’esibizione senz’altro sfacciata di uno stile di vita che noialtri non-ricchi possiamo solo immaginare. E John è consapevole di questa verità ed è questo che connota la sua disperazione: il fatto che lui sia certo di non poterla sovvertire, che il suo tentativo di “guarigione” non può che passare dai soldi, perché i soldi sono l’unica cosa che ha – in un altro circolo vizioso per cui i soldi sono il solo motivo per il quale John ha tutto quello che ha, ma anche l’unico frutto degli anni di vita. E l’ossessiva ripetizione anche solo del termine «soldi» diviene una sorta di palliativo per il personaggio, un continuarsi a ripetere che almeno ci sono quelli, che quel problema è risolto – come la morfina che ti cura il dolore mentre hai comunque tutto il corpo inutilizzabile.

Selina, invece, suo amore/non amore tormentato, catalizza tutte le dipendenze di John Self e incarna quel modello idealizzato e fuorviante figlio della pornografia: ecco perché John non può resisterle, perché ha cristallizzato il sesso nel porno e non riesce ad uscirne, al punto che ogni esperienza risulta alla fine inappagante. Questo distacco della percezione reale, lo sguardo vitreo che filtra il romanzo, sfocia perfino nell’impotenza del suo protagonista.

Il postmodernismo di Money sembra ribaltare la metaletteratura pirandelliana, nella quale i personaggi chiedevano conto al proprio autore: qui l’autore piega sé stesso al personaggio e si porta a un incontro-scontro con il proprio protagonista, inizialmente per risolvere un problema prettamente letterario – il problema del realismo, appunto.

Sembra che Amis abbia foggiato John Self come una sorta di alter ego negativo, nel quale poter riversare tutte le brutture che teme di poter nascondere: l’egoismo, il maschilismo, le dipendenze, l’incapacità di accontentarsi, la mancanza del decoro e del senso della misura, l’ignoranza, l’inappagabilità, perfino i brutti denti. Ma il ribaltamento è doppio, perché il romanzo non conduce alla morale retorica che ci aspetteremmo: vince la vita, perde la letteratura – in questo che è comunque un trionfo di stile; un trionfo interno al discorso artistico-letterario, e non assoluto, perché esiste una letteratura superiore a un’altra, ma non ne esiste una superiore alla vita vera.

Sempre per restare al discorso letterario, il romanzo fa quasi il verso al genere di formazione, configurandosi come de-formazione di un protagonista già adulto che non cresce ma invecchia, non si arricchisce ma perde tutti i soldi, non si realizza ma si smarrisce – e nemmeno guarisce per davvero: privato del denaro, si libera (involontariamente) soltanto di una dimensione che gli aveva permesso di esprimersi; se adesso si accontenta, è perché deve farlo. La solitudine – mai mostrata, che emerge solo per contrasto – di John è la solitudine dell’uomo moderno, circondato da una bellezza che comunque risulta insufficiente, in una spirale di contraddizione per la quale questa bellezza si avverte, perfino si comprende, talvolta se ne gode pure, ma non è bastevole alla felicità.

 

Ovviamente, come ogni classifica, l’articolo del Guardian non elegge soltanto ciò che è meglio, ma sentenzia anche cos’è peggio. In questo caso, l’ultimo posto è andato a La vedova incinta, romanzo del 2010 pubblicato in Italia ancora da Einaudi e accolto piuttosto tiepidamente – se non con un accesso di stizza come accadde per L’Espresso, che dichiarò senza mezzi termini: «Martin Amis ha rotto le scatole». Appena dieci anni più tardi, il romanzo è finito fuori catalogo e oggi risulta introvabile non solo nelle librerie di tutta Italia, ma anche online. E al di là delle polemiche che riuscì a suscitare ai tempi della pubblicazione, oggi il libro sembra essere uscito perfino dai discorsi intorno all’autore – nessuno lo menziona, tanti ne hanno abbandonato la lettura, non si trova nemmeno nella sezione degli usati.

Ma quindi: di che cosa parla La vedova incinta? È, per farla breve, un romanzo sulla giovinezza. Direte: un altro romanzo sulla giovinezza? No. Un libro così, sulla giovinezza, non era forse mai stato scritto. Il romanzo non prende una direzione, e in questa sua indefinitezza trova la definizione della sua forma. Un romanzo sulla giovinezza che è il riflesso della giovinezza: leggero all’apparenza e ricco allo stesso tempo, disorientante, informe perché mutevole. Pieno di fantasie e fantasticherie – intriso di Letteratura.

Sembra configurarsi come un romanzo a cornice, ma non è nemmeno quello. Amis recupera l’uso del prologo, ma rifiuta l’epilogo – o quantomeno ristruttura anche quello, lo chiama “Coda” e gli serve quasi come appendice. Perché la storia, quella del romanzo, è già conclusa, e in effetti non si avvertirebbe il bisogno letterario di conoscere quello che accade dopo. Ma c’è un bisogno non-letterario, «semplicemente umano», che è quello di «sapere che fine hanno fatto tutti». Per soddisfare questo bisogno, il narratore accelera i tempi, comprime trent’anni in settanta pagine dopo averne spese 350 al racconto di una sola estate.

Un’estate di giovinezza, però, dopo la quale si può soltanto invecchiare – dopo la giovinezza, del resto, s’invecchia in fretta, chiedetelo ai nonni. Restano i ricordi – quelli e «una verità e una cronologia», la forma intrinsecamente tragica che appartiene a chiunque ha superato la giovinezza; «la bocca di una maschera tragica: un volto comune a tutti coloro che non muoiono giovani».

Della giovinezza non sappiamo nulla, fin quando non ne usciamo. Da bambini ignoriamo quando arriverà – e forse ignoriamo semplicemente che esiste, in quella fase di età in cui il mondo corre soltanto su due binari: i grandi e i piccoli. Da giovani ignoriamo il momento in cui la perderemo – questa consapevolezza che può farsi tormento, come se aspettassimo una morte d’anticamera a quella naturale: la morte della nostra giovinezza. Il tentativo di Amis, allora, diventa quello di eternare questo momento irripetibile, e di farlo con la con-fusione sentimentale che la caratterizza, l’intensità, gli impeti emotivi, ma anche la rincorsa – agognata – alla leggerezza, all’indipendenza attraverso cui si cerca di plasmare un’identità che poi rifiuta la stessa fissità che ne deriva.

Di conseguenza il romanzo non può essere fisso in un impianto, ma si modella sui tanti momenti che lo vanno a comporre – che compongono, tutti insieme, una storia che non è una grande storia, ma soltanto uno stato d’animo, il Momento dei momenti: l’apice della vita al massimo del proprio splendore, del proprio fulgore, sciolta dagli obblighi del mondo adulto ma padrone delle possibilità che non sono concesse ai bambini.

Se Money appariva come una sorta di romanzo di de-formazione, La vedova incinta elude il Bildungsroman, a cui si allinea senza aderire completamente, configurandosi piuttosto come un’educazione sentimentale. Ma il gioco letterario condotto da Amis è ricchissimo, senz’altro troppo per sviscerarlo, e dai casi più evidenti si sfuma in un citazionismo tributario che può, a seconda del lettore, estenuare o entusiasmare, spazientire o divertire.

La centralità della Letteratura, il contraltare ideale alla Vita, si esprime nella centralità delle frasi, la cui giustapposizione compone la tessitura strutturale dell’opera, che vive essenzialmente sulle parole che descrivono, o sostituiscono, le azioni, più che sulle azioni stesse. Ma è l’insufficienza di queste parole, ancora una volta, a rendere il senso dell’opera – perché esprimono una bellezza soltanto letteraria, al massimo vitalistica ma non viva. Perché la bellezza non si può raccontare – anche se la poesia dice: “Bellezza è verità, verità è bellezza”. Ma una volta che la giovinezza è passata, la bellezza è perduta e resta soltanto la verità.

E qual è, questa verità? «Ce n’è una scorta infinita», dice Keith. Tra le altre, questa è una verità: che la bellezza scompare – che la bellezza muore. E il dramma della vita, che è una sola per ognuno, è che non tutti l’hanno avuta. Così, chi non ce l’ha, la insegue; chi la possiede, finisce per adorare la propria immagine allo specchio – che riflette un momento ed esprime un potere che i belli esercitano sugli altri, gli altri che alla bellezza non possono fare a meno di piegarsi. Ed essendo l’apparenza la manifestazione dell’essere (in qualsiasi modo lo si voglia intendere), si finisce per diventare quella bellezza. Innanzitutto, sopra ogni cosa.

«Oh, come mi amo. Come mi amo», dice Gloria Beautyman (un altro nome parlante) mentre si guarda allo specchio – e in quel momento sta dicendo: “Amo la mia bellezza, come gli altri, anche se è già mia”. Così Keith, che non è bello ma solo giovane, non si accontenta dell’amore di Lily, nemmeno lei bella, ma agogna la bellezza che non ha – la bellezza dei corpi che lo ossessiona al punto da rilevare le misure di ogni ragazza fino a inventarne di nuove. E nel tentativo di compiere questa impresa, sfida la logica della fedeltà, e sotto di questa soccombe. La giovinezza è anche questo tentativo ingenuo di coniugare la logica ai sentimenti: per cercare di superarli, per sentirsi nel giusto nonostante tutto. «Con Gloria fu solo sesso, con Lily fu solo amore».

Ma al termine del romanzo, quando la giovinezza è finita, si maturano le consapevolezze dell’età adulta. E si scopre il momento in cui la giovinezza ci ha lasciati, come si scopre che si ama la propria bellezza non per vanità, ma per la paura – la paura senza speranza – che un giorno la perderemo. Ma anche: per quello che quella perdita starà a indicare, e cioè il preludio alla morte. La metamorfosi del corpo si compie quando lo stato della vita lascia il posto a quello della morte: la trasfigurazione ultima e destinata di un corpo che non ci sarà concesso vedere allo specchio.

Quando tutto si chiude, non restano che i ricordi – che sono immagini raccontate, inevitabilmente, a parole. Quando tutto si chiude, restano le parole che hanno coperto tutto. Hanno coperto il sesso «perché non può essere descritto». Hanno coperto l’azione perché l’hanno ridotta a una fantasia che non si è avverata – che si è espressa soltanto nelle parole della mente – o a una confessione, o a una vicenda che è stata riferita. Trascinati dalle parole, formuliamo tutti lo stesso pensiero: «T’immagini che paradiso, vivere due volte i propri vent’anni? Sapere quel che si sa a trenta e rifarlo daccapo?»

E allora la giovinezza diventa un ricordo fuori dall’alfabeto, che si consuma in noi senza parole, in una giustapposizione d’immagini che abbiamo trasfigurato, per gli altri, nelle frasi – quelle che vanno a comporre un romanzo come questo. E ci consuma fino all’ultimo giorno.

 

(Martin Amis, Money,  trad. di Susanna Basso, Einaudi, 1999, 490 pp., euro 15; La vedova incinta, trad. di Maurizia Balmelli, Einaudi, 2011, 432 pp., euro 22. Articolo di Giuseppe Del Core)

 

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