Stanchezze generazionali

Su “La società della stanchezza” di Byung-Chul Han

di / 13 ottobre 2020

Copertina di La società della stanchezza di Han

New York, 1960. C.C. Baxter lavora al diciannovesimo piano di un grattacielo, precisamente all’ufficio polizze scadute di una grande compagnia assicurativa. Timbra il cartellino alle 8:50 e abbandona l’ufficio alle 17:20, con un certo modesto rancore. A volte si trattiene oltre l’orario di lavoro per motivi che poco (o forse molto) hanno a che fare con la carriera, come raccontò magistralmente Billy Wilder nel film L’appartamento (1960). Se non fosse per questo dettaglio, infatti, C.C. Baxter sarebbe solo un grigio impiegato, indistinguibile dalla massa neghittosa che ogni giorno prende posto tra le scrivanie ordinate.

Ma il personaggio interpretato da Jack Lemmon, in realtà, non è solo un impiegato, bensì il simbolo dell’«animal laborans»: in lui la vita activa nobilitata da Hannah Arendt si trasforma nella degenerazione lavorativa, nell’indifferenza umana, nella malattia mortale. Eppure, come ci ricorda Byung-Chul Han nel suo libro La società della stanchezza (nottetempo, 2020 nuova edizione), «ogni epoca ha le sue malattie»: secondo il filosofo di origine coreana, infatti, la teoria arendtiana non sopravvive alla prova del tempo. Oggi Baxter sarebbe un uomo vittima non del lavoro ma della prestazione: non si lascerebbe travolgere dagli eventi, sarebbe «iperattivo e ipernevrotico», e lavorerebbe ovunque e in qualunque momento. Il suo tempo non sarebbe più scandito dal suono abulico della timbratura del cartellino, bensì dal bisogno ingannevole di realizzarsi.

L’individuo tardo moderno descritto da Han non conosce il concetto di alienazione, perché è un lavoratore apparentemente libero e incapace di sacrificare «la propria individualità o il proprio ego per annullarsi». Anzi, vive nell’illusione di rafforzare l’identità attraverso i social network, ottenendo risultati opposti (illuminante a questo proposito l’appendice dedicata a Facebook, Carl Schmitt e il burnout).

La «società disciplinare», descritta, tra gli altri, da Foucault e Goffmann, è perciò sostituita dalla ben più complessa «società della prestazione»: in essa il potere non è più imposto dall’alto, ma assume la forma di una falsa scelta: quanti mostri, allora, si celano dietro le possibilità, e con quanta premura l’umanità contemporanea forgia le catene con cui rendersi schiava.

Il conflitto non esiste più al di fuori dell’individuo, ma assume le sembianze di una lotta interiore in cui siamo vittime e carnefici allo stesso tempo. La stanchezza evocata da Han è, perciò, ben diversa da quella che si respira nelle fabbriche o negli uffici di una compagnia assicurativa degli anni Sessanta: l’autosfruttamento, l’ingannevole bisogno di realizzarsi attraverso il lavoro, la frustrazione causata dal non raggiungimento degli obiettivi, e la debilitante necessità di sovrapporre l’Io alla singola prestazione, producono individui stanchi e depressi.

La cura, allora, si nasconderebbe proprio nella malattia del nostro tempo: la stanchezza, precisa Han, può diventare salvifica, laddove si riesca a trasformarla in riposo, in contemplazione, in rifiuto dell’azione faustiana, in vita activa nella sua accezione più alta e nobile).

Byung-Chul Han continua la sua precisa opera di decostruzione della contemporaneità e di svelamento degli inganni del mondo: e lo fa attraverso la forma asciutta e sintetica che caratterizza, talvolta, la certezza del pensiero. Ebbene, se questo brevissimo, ma immenso saggio, ha delle colpe, esse sono nascoste nel numero esiguo delle pagine (poco più di cento) e nell’aver deliberatamente trascurato tutto ciò che continua ad accadere al di fuori del conflitto interiore: i disagi dell’animal laborans, le istituzioni totali, il potere oppressivo del lavoro; e i C.C. Baxter che ogni giorno, ancora, timbrano il cartellino e provano sulla loro pelle cosa sia l’alienazione.

 

(Byung-Chul Han, La società della stanchezza, trad. di Federica Buongiorno, nottetempo, 2020, 132 pp., euro 14, articolo di Elisa Carrara)

 

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