Frontiere della finzione: mondi attuali e mondi possibili

Françoise Lavocat, “Fatto e finzione. Per una frontiera”

di / 8 maggio 2021

Copertina di Lavocat Fatto e finzione

Fatto e finzione di Françoise Lavocat, Segni e stili del moderno di Franco Moretti e Le costanti e le varianti, atti del Convegno Compalit 2019, costituiscono le prime opere pubblicate da Del Vecchio Editore nella nuova collana L’anima e le forme.

Francesco De Cristofaro, membro del Comitato di direzione, ricorda la natura proteiforme di questa collana, che già nel titolo lukácsiano (L’anima e le forme è infatti una raccolta di saggi sulle modalità privilegiate nel rapporto tra vita e anima umane pubblicata da György Lukács nel 1908) rivela la propria fisionomia quale punto di riferimento per il dibattito culturale di teoria della letteratura e di letterature comparate: produzione saggistica (monografie originali), ristampe (testi fuori commercio la cui voce risulta però ancora importante nel panorama della ricerca letteraria) e lavori di équipe (atti di convegni, seminari, giornate di studi e tesi di dottorato di comprovata importanza scientifica) ne costituiscono la triplice espressione editoriale. L’ispirazione della collana, una cui fondamentale particolarità risiede nella doppia possibilità di fruizione (cartacea e online), potrebbe dopotutto essere ben espressa con le parole, pur naturalmente riferite ad altro contesto, contenute nella premessa dal titolo C’era una volta, con la quale Franco Moretti introduce ai suoi Segni e stili del moderno (p. 8), ricordando quando tra gli anni Sessanta e Ottanta, scrivere «un saggio su rivista non era come porre un mattone nella grande cattedrale del sapere; era uno schizzo di tutta la cattedrale; sghembo, e magari troppo microscopico per essere preso sul serio; ma quella cosa lì. In ogni pozzanghera, si provava a vedere il firmamento. Gran fatica, grande libertà».

Il primo volume pubblicato in questa collana, per la prima volta tradotto in italiano dopo l’originale edizione francese (Seuil, 2016) è Fatto e finzione. Per una frontiera di Françoise Lavocat (trad. di Chetro De Carolis) che, come ricordato da Guido Mazzoni nell’ambito delle serie di incontri di Extrema ratio, segna un punto di svolta in un dibattito critico di lunga tradizione, sia per ragioni interne alla teoria della letteratura e alla letteratura comparata sia per ragioni esterne ad esse, legate piuttosto alla trasformazione della nostra cultura, alla logica del discorso pubblico, dei media e del dibattito politico.

Ben diverso da un pamphlet, questo libro davvero molto vasto si muove infatti con grande coerenza attorno ad alcuni fondamentali nuclei teorici.

Con la prima grande questione ripercorsa nella trattazione, Lavocat ricostruisce la storia dell’opposizione teorica di due posizioni filosofiche circa lo spazio di frontière tra fatto e finzione: contro quelle teorie che, negando tale frontiera concettuale, sanciscono l’assenza di segni di finzionalità all’interno dei testi, Lavocat recupera, e abbraccia, la teoria immanentista, affermando come la distinzione tra fattualità e fiction sia interna alla logica del funzionamento dei testi ‒ esclusi, però, quelli di indirizzo poetico, come assunto anche da Genette in Fiction et diction (1991).

Pertanto, con una prospettiva di lunga durata, questo studio si ricollega non solo ai discorsi degli ultimi decenni sopra questo grande dibattito che vede coinvolti, tra gli altri, Barthes, Ricœur, Veyne, Foucault, Lacan, ma anche ai termini aristotelici di storia (intesa, appunto, come fatto) e di poesia (finzione) sui quali dibattevano i grandi intellettuali della cultura europea già nella seconda metà del Cinquecento e poi nell’arco dell’intero Seicento (recuperando, comunque, questioni teorico-letterarie di origine classica).

Nel libro, inoltre, si procede alla comparazione di elementi propri non solo delle culture occidentali (in ispecie americana, inglese, francese e italiana) ma anche di quelle orientali (giapponese in prima istanza). Fin dal primo capitolo, infatti, si includono nel novero dei casi presi in esame nell’ambito dei chiarimenti circoscritti sulla materia anche esempi tratti dalla letteratura asiatica; si pensi all’originale disamina di Genji monogatari, romanzo attribuito alla dama di corte imperiale Murasaki Shikibu e scritto in Giappone intorno all’anno Mille.

Premessa teorica indispensabile a questo studio è che i segni di finzionalità, per quanto ritenuti immanenti ai testi, non vengono tuttavia letti come elementi costanti; al contrario, essi appaiono ricollocati di caso in caso nei loro specifici contesti di riferimento. Per questa ragione, si afferma la necessità di «equilibrare una prospettiva interna (l’indagine sugli indizi interni di finzionalità o di fattualità) e una prospettiva esterna (pragmatica, culturale, sociologica)» (p. 66), così da rimarcare la suddetta distinzione tra testi finzionali e testi fattuali, che Lavocat ritiene essere paradossalmente scaturita dall’«odio della finzione» (p. 173): una sorta di contropartita, insomma, del rifiuto della categoria di finzione tradizionale ottocentesca.

Dichiarando apertamente di allontanarsi da assunti strutturalisti e da «vari millenni di timorosa diffidenza nei confronti dell’immersione finzionale» (p. 649), Lavocat afferma poi la sostanza ontologica della frontiera che distingue fattualità e finzionalità: ne deriva la natura concettuale, cioè non pragmatica, della distinzione tra realtà e fiction, che pure non esclude certamente quelle forme di ibridazione per le quali all’autrice risulta impossibile dettare una risoluzione pienamente normativa del discorso. Si verificano infatti dei casi in cui un personaggio reale si trova inserito in una dimensione finzionale quale referente storico all’interno della dinamica testuale (valga l’esempio celeberrimo di Napoleone in Guerra e pace). Un ruolo decisivo, infatti, è giocato da quei meccanismi di identificazione che, attraverso l’empatia, favoriscono un «certo tipo di immersione nel racconto e di identificazione col personaggio insita nel romanzo» (p. 26).

A ogni modo, questo tipo di eterogeneità referenziale non afferisce solo a forme antiche o ritenute letterariamente canoniche: anche la narrazione cinematografica, infatti, ne viene investita molto frequentemente. Ad esempio, nel film di Spike Jonze, Adaptation (2003, tit. ita. Il ladro di orchidee), s’individuano tre categorie di personaggi cui corrispondono diversi gradi di finzionalità intorno ai quali s’impernia la sceneggiatura: John Malkovich nel ruolo di se stesso all’inizio del film; il personaggio di Charlie Kaufman (interpretato da Nicolas Cage) nel ruolo dello sceneggiatore incaricato, nella realtà così come nella pellicola, dell’adattamento di un libro documentaristico sulla vita del coltivatore di orchidee John Laroche, che è interpretato da Chris Cooper ed è personaggio reale, come pure la giornalista Susan Orlean, l’autrice dell’opera interpretata da Meryl Streep. Il libro in questione è The Orchid Thief, pubblicato dalla giornalista nel 1998. L’intervento di un personaggio di finzione, Donald Kaufman, nel ruolo del fratello gemello dello sceneggiatore Charlie, complica ulteriormente la dinamica dei «sofisticati giochi orchestrati dal film intorno alla referenzialità» (p. 507).

 

Un’altra importante questione affrontata nel libro riguarda le problematicità derivate dal rifiuto della frontière: negare la distinzione tra fatto e finzione, infatti, comporta delle conseguenze di tipo etico che già Carlo Ginzburg aveva sottolineato nel corso del suo dibattito con Hayden White circa le riflessioni sui diversi modi di intendere il rapporto tra storia e letteratura. Questa è dopotutto una delle ragioni per la quale nel merito del discorso si evidenziano alcune possibili contrarietà circa la finzionalizzazione dell’esperienza estetica.

Non mancano, in questo senso, i riferimenti contemporanei. Si pensi ai due esempi europei di «revisionismo attraverso la finzione», che rivelano come la natura ibrida di certe costruzioni storico-finzionali possa originare, «grazie ai modi propri della finzione, delle versioni non attestate e non consensuali della storia» (p. 142): Los soldados de Salamina di Javier Cercas (2001) e Jan Karsi di Yannick Haenel (2009).

È opportuno però tenere conto che, come ricordato da Pierluigi Pellini nel suddetto incontro di Extrema ratio, un certo uso della realtà storica all’interno della finzionalità pone sì un problema etico, ma origina anche degli interrogativi sulla liceità dell’azione, dell’inventiva e della licenza autoriale, dal momento che in un simile contesto si profila il rischio di restituire alla letteratura una funzione strettamente pedagogica, limitandone l’effettivo campo d’indagine.

Il discorso investe anche la dimensione politica: la dichiarazione sulla «realtà alternativa»,  consapevolmente integrata al discorso ufficiale della presidenza statunitense, rilasciata nel corso di un’intervista per la CNN il 22 gennaio 2017 da Kellyanne Conway, allora counselor di Donald Trump, fornisce un esempio immediato dei rischi legati alla negazione della frontière, dalla quale anzi derivano due fenomeni complementari ulteriormente rimarcati anche da Guido Mazzoni: l’indistinzione tra realtà e finzione nel dominio politico e la finzionalizzazione del potere, tratti peculiari già dei fascismi e delle dittature del secolo scorso e oggi dei populismi.

Come alcuni esempi riportati hanno già mostrato, la ricca vastità dei soggetti presi in esame e posti a sistema nella prospettiva analitica degli studi condotti nel libro abbraccia diverse discipline, tra le quali anche le scienze cognitive (a partire, soprattutto, dagli studi di Anna Abraham e Marco Sperduti), la museografia e l’ambito giuridico. In merito all’incontro tra letteratura e realtà giudiziaria, argomento di grande attualità soprattutto negli studi americani (la Legal Narratology in cui spicca il volume del 1996 di Peter Brooks, Law’s Stories: Narrative and Rhetoric in the Law), Lavocat suggerisce che la finzione, considerata spesso come dominio del non-diritto, costituisce in realtà un luogo di costante negoziazione dello stesso, inteso come diritto di referenzialità.

L’attenzione allo statuto dell’individuo su cui s’impernia l’elemento finzionale nella dinamica testuale e al grado di prestigio attribuito alla figura dell’autore conduce a un paragone tra realtà occidentale e realtà orientale, dove una secolare tradizione di testi in prima persona quando più quando meno impostati sulla fiction pone al centro della scena narrativa persone reali, il cui ritratto finzionale raramente comporta conseguenze legali (almeno fino alla svolta epocale del clamoroso processo intentato tra il 1961 e il 1966 a Yukio Mishima dal politico Hachirô Arita a causa del romanzo Dopo il banchetto). Al contrario, nella società occidentale i primi episodi processuali sono stati intentati da persone «non potenti e che si reputano lese per essere servite da modello alla parte avversa» (p. 345) già a fine Ottocento. Il primo caso recensito dalla giurisprudenza vede opposti Émile Zola e un certo Duverdy nel febbraio 1882; nel 1887, invece, Jules Verne aveva vinto un processo di diffamazione contro l’ingegnere Turpin, che si era riconosciuto in un personaggio di Face au drapeau.

Questo esempio, come gli altri numerosissimi casi riportati nell’architettura del discorso scandagliato da Lavocat nelle sue molteplici declinazioni teorico-filosofiche, mostra insomma quanto sia importante e attuale «la necessità cognitiva, concettuale e politica delle frontiere della finzione» (p. 10): lo studio del «fenomeno della finzionalità», così, si delinea non solo come studio di una «costante antropologica» e di una «competenza cognitiva condivisa», ma anche quale «esercizio di libertà» (p. 31).

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