Al di qua e al di là del castello
“La sera sulle case” di Eduard von Keyserling
di Claudio Musso / 17 maggio 2022
In La sera sulle case di Eduard von Keyserling, ricordato solo di passata nei manuali di letteratura – che L’orma editore ripropone in una nuova edizione (2022), tradotta e introdotta dal germanista Giovanni Tateo –, ci sono quattro castelli che dominano la vita dei personaggi e mostrano loro la via da percorrere. Quando scende la sera e si accendono le luci delle proprie stanze, i castelli si confortano della certezza di esserci ancora l’uno per l’altro, di continuare a essere quella bussola che orienta tutto e tutti verso un indiscutibile punto cardinale, neutralizzando strade alternative. Ci troviamo di fronte a un testo corale dove le vicende dei protagonisti si intersecano in un continuo porsi al di qua o al di là di questi castelli, generando un conflitto generazionale che prorompe in ogni pagina.
Ad abitare questi avamposti, che proteggono dall’esterno e nei quali ognuno deve rimanere al proprio posto di guardia – come nella Fortezza Bastiani di Dino Buzzati –, c’è una fiera nobiltà terriera di lingua tedesca che vive immersa in uno splendido, routinario ed elitario isolamento. Nobilità che prospera in quella Curlandia di cui Keyserling è originario, governatorato dell’Impero russo nel primo Novecento (adesso fa parte della Lettonia). Si tratta di una Heimat tronfia, con le proprie leggi, da cui pare discendano i cavalieri teutonici.
A fare impazzire l’ago di questa bussola ci pensa la generazione dei giovani, con la loro proposta di un lessico diverso rispetto alla “teoria dei castelli” , che non li faccia impaludare e che permetta loro di togliersi le ragnatele dalle dita. Benché amati con sincera devozione dai padri, si tratta di rampolli spesso insonni e dediti a pensieri ostinatamente penetranti, che cercano di contrastare il “sistema” con il genuino desiderio di un Altro e di un Altrove. Vogliono infatti prendere le distanze dalla stanca accettazione di chi, come i genitori, non ha niente da fare se non aspettare che una cosa dopo l’altra venga giù, sgretolandosi in quelle antiche dimore nei cui angoli bui sembra risuonare un muto lamento. Soli nelle proprie stanze, “in quell’età confusa di rimpianti simili a speranze e di speranze simili a rimpianti”, come direbbe Turgenev, cercano di strapparsi di dosso quella inazione che indossano come una veste molesta. E, mentre la foresta che li circonda è sconquassata da un forte vento che fa tremare il terreno delle certezze ma diffonde anche l’inebriante e familiare profumo delle betulle, i giovani dei castelli dai destini incrociati spesso fanno fronte comune, pure nella loro diversità.
La giovane baronessa Fastrade del castello di Paduren ha fatto la crocerossina in un’altra città per accudire il proprio ex precettore malato, con un sentimento di amore e compassione, che per lei sono la stessa cosa. Poi, costretta dal peggioramento del padre, si è riappropriata della sua vecchia vita ma solo parzialmente è rientrata nei ranghi. Vive infatti una relazione discutibile, che fa mormorare i castelli, e si impegna ancora ad aiutare il prossimo, cercando di mettere mano e ordine, con l’istinto della governante, nella vita scombinata del giovane barone Egloff del castello di Sirow.
Egloff infatti adotta una condotta anarchica ed egoista come sfida all’ideale morale in cui è stato allevato, dilapidando il patrimonio di famiglia al gioco, e vivendo come un animale notturno che di giorno rimane nella sua tana a dormire e, quando fa buio, si aggira furtivamente per case e pollai dove riposano tutti, escluse le complici della sua lussuria. Ma questo non gli basta: essendo a corto di finanze, decide di vendere gli alberi del parco del proprio castello per farne legna, abbattendo parte di quella foresta che ha sempre legato le generazioni dei castelli fra di loro, e creando di fatto una crepa nel paesaggio che alla vista dei padri ha le fattezze di uno sfregio.
Anche dagli altri due castelli giungono note stonate. Gertrud del castello dei Port ricorda con nostalgia gli anni di Dresda in mezzo ad artisti e caffè pieni di vita e di persone interessanti, un’esperienza bohémien da cantante che si è conclusa perché anche lei è dovuta rientrare nelle terre baltiche. Adesso, rassegnata, è costretta a domare la sua passione cantando, con le gambe tremanti, nel salotto di casa davanti a domestiche assonnate, o cercando nei romanzi un mondo che non può vivere. C’è infine il barone del castello di Barnewitz, un accorto amministratore dei propri beni, che sembra l’unico della nuova generazione in sintonia e in continuità con la tradizione dei padri; questo sebbene abbia sposato la figlia di un ricco industriale, che per i castelli è sempre rimasta un’esclusa.
Il padre di Fastrade ha sempre esercitato un tranquillo ma incontrastato dominio sui suoi pari. Con contegno dignitoso e autorevole è solito tracciare con la mano aperta una linea orizzontale nell’aria, come a simboleggiare un limite invalicabile di cui lui e gli altri signori dei castelli sono custodi e secondini. I vecchi infatti vogliono starsene in pace e festeggiare malinconicamente la sera della loro vita prima che questa si spenga, una cornice dentro la quale i giovani, benché refrattari, devono rimanere poiché solo in quella penombra si può avere pace e riserbo. E se anche questi ultimi cercano una luce, una via d’uscita, alla fine naufragano nell’impossibilità di trovare una valida alternativa, perché in fondo quel buio fa ancora parte di loro e non potrebbero farne a meno. Su questo punto il nostro sguardo si allunga a Il castello di Kafka: per questi giovani non avere più un castello significa, in ultima istanza, non avere più leggi, non avere più quella certezza – per quanto mal digerita, visto il suo correlato di assurdità –, quell’ordine che va bene così purché ci sia un ordine. E non importa se il proprio corpo si fa sismografo delle inquietudini somatizzandole nella fragilità dei nervi.
Keyserling ci offre una narrazione impressionistica e misurata, elegante e crepuscolare, nella quale accosta spesso frasi di grande contemplazione sulla natura baltica ad altre in cui acquarella i colori trasparenti della malinconia per un mondo che sta per spegnersi, anche se le ribellioni all’interno dei castelli sono state soffocate. Oramai cieco, si trova nella condizione di dettare il suo manoscritto e, nel cogliere i battiti del tempo che passa, sa farsi veggente, fiutando la fine di un’epoca, osservando quella sera che lentamente scenderà sulle case, perché di lì a poco sarà la Prima guerra mondiale a fare impazzire nuovamente l’ago di moltissime altre bussole.
La sera sulle case è dunque un’occasione per ritrovare un importante autore del primo Novecento tedesco che Jan Brokken, nelle sue Anime baltiche, ricorderà come uno dei personaggi più rappresentativi di quelle terre. Intanto i vecchi del romanzo non rinunciano alle loro abitudini, come per esempio attendere al tramonto l’arrivo delle anatre al lago, le quali possono anche volare altrove ma poi tornano sempre. E mentre ci si conforta nel «niente di nuovo nei dintorni», la generazione sconfitta dei giovani siede in silenzio e continua a percepire il placido conversare dei genitori come un’aggressione contro cui bisogna difendersi.
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