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Musica

Music From Big Red

Big Red Machine, testimonianza del progetto P-E-O-P-L-E

di Giada Ferraglioni / 19 settembre

Big Red Machine, il frutto della collaborazione tra Justin Vernon, Aaron Dessner e centinaia di altri musicisti, è uscito online a fine Agosto, al termine di un mese di lavoro del collettivo antiautoriale P-E-O-P-L-E.

Ma Big Red Machine non è un album, né una raccolta; non è un best of, né una scelta di b-side singolari. Si tratta, piuttosto, di una testimonianza multiforme, travagliata e complessa, e tuttavia estremamente coerente. A far da guida c’è poco o niente, data la frammentarietà dei generi e la parzialità di alcune composizioni.  Eppure, il risultato è qualcosa di straordinario, qualcosa che, alleluia, si spinge oltre la ricerca del gusto e della compiutezza,  che tenta di percorrere il flusso anziché contenerlo.

L’eterogeneità degli artisti fa capo alla regola compositiva: il bisogno creativo della trasformazione del reale tiene insieme un formidabile equilibrio di contraddizioni, praticato tra posture classiche e continui sbalzi schizofrenici. «È stato un po’ difficile», dice il polistrumentista dei The National, «decidere quando le canzoni fossero finite in una prospettiva in cui non le si voleva terminare».

L’estrema varietà dei sottogeneri attraverso i quali si articola Big Red Machine è chiara già nell’inquietudine di “Deep Green”, traccia d’apertura del lavoro, e in “Lyla”, dove percussioni, archi, sonorità bleep e scratches si tengono insieme in virtù dell’assenza di baricentro. L’energia del suono si ordina nella prospettiva della continuità e del dinamismo, fuori dall’ottica del limite propria della canzone tradizionale.

Sleep Well Beast fa la sua comparsa (inevitabile) in “Gratitude”, squisitamente contaminato dal gusto gospel e hip hop di Justin Vernon, che è forse la più potente intuizione artistica degli ultimi anni. Restituendo all’hip hop quella dimensione comunitaria della testimonianza, propria già del metodismo gospel originario, le composizioni di Vernon ricostruiscono un massiccio filo rosso tra arte e emarginazione, tra l’esistenza e la resistenza. Una costruzione teorica e artistica all’incrocio tra pratiche pagane e bisogni cristiani: dopo i cantici dell’ordinario di 22, A Million, in Big Red Machine si riscopre la necessità di una pratica eucaristica giocata tra le persone, un processo di ricerca e riconoscimento di e nell’altro attraversato dall’esperienza della condivisione di fatica e dolore, esclusione sociale e sconfitte politiche. Sia dal punto di vista del risultato che della metodologia (quella di P-E-O-P-L-E, in questo caso), non c’è nulla a oggi che si avvicini alla capacità che ha avuto e sta avendo Vernon di fare avanguardia musicale.

A metà dell’album c’è “Hymnostic”, una gemma raw, espressione di ciò che vuol dire da sempre fare folk. Traccia che sembra uscita intatta dal live recording Rock of Ages, “Hymnostic” ricorda a tutto tondo la dimensione bootleg e jam dei Basament Tapes di Bob Dylan e The Band registrati nel sottoscala della Big Pink di Byrdcliffe. D’altronde, è nella logica del bootleg l’intera distribuzione, non solo di Big Red Machine, ma di tutta la produzione artistica derivata dagli incontri alla Funkhaus di Berlino. Eppure, nonostante il legame con la tradizione ponesse il rischio della trivialità, “Hymnostic” diventa il corpo attraverso il quale quel tipo di atmosfera torna a vivere nella pienezza della sua carica espressiva.

Un misticismo riproposto nei sette minuti e quarantadue di “OMDB”, brano più lungo dell’album, e che trova respiro nei ritmati elettronici appoggiati sulle dentali dei versi «Over my dead body / Through the rock / Over your dead body / Wanna live again».

Senza farsi troppi problemi, sul finire dell’album arriva la ballata “People Lullaby”, la quale, nonostante la ribadita fluidità autoriale del collettivo, deve forse troppo al salto in avanti segnato due anni fa da 22, A Million – album che, bisognerà allora ammetterlo, ha permesso se non la nascita quantomeno la riuscita finale del progetto. Il country pop acustico di “We Won’t Run From it”, arricchito da accenni di fiati durante i cori, stona un po’, invece, con il resto delle tracce, qualora si volesse tentare (erroneamente) di restituire una logica tematica alla raccolta di brani.

Big Red Machine si chiude con “Melt”, un’estasi condivisa nella ripetizione in loop del verso «Well, you are who you are», lì a ennesimo tentativo di sciogliere i confini fisici e artistici dell’esperienza, di creare rapporti e di costruire legami.

La collaborazione tra Dessner e Vernon compie oramai dieci anni – dieci anni in cui i due musicisti non hanno mai smesso di sperimentare una composizione al di fuori delle loro stesse costruzioni e dei loro nomi. Lungi dall’essere la fortunata conclusione di un tentativo alla cieca, Big Red Machine arriva a compimento di un percorso consapevole di ricerca che ha ancora tutto davanti a sé.

 

LA CRITICA - VOTO 9/10

Bootleg delle sperimentazioni collettive di P-E-O-P-L-E, Big Red Machine produce e sprigiona una potenza artistica con pochi eguali.