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Libri

Il confine della favola

Favole italiane del Novecento

di Priscilla Santoro / 25 settembre

Come un fil rouge, favola e fiaba attraversano la tradizione letteraria italiana sino al Novecento: ripercorrere caratteristiche interne e formali, dipese dalla formazione dell’autore e dagli intenti che questi si propone, permetterà, di volta in volta, di indagare non solo le differenze che distinguono raccolte di fiabe fantastiche, sul modello di Capuana, dall’apologo in versi di Trilussa e dalla favola cupa di Tozzi e Buzzati, ma anche le molteplici potenzialità dell’apologo, secondo l’uso che ne fanno Calvino e Sciascia; e, ancora, di gettare luce sulle rielaborazioni propagandistiche di un racconto, come nel caso di Pinocchio, o sul diverso impiego di romanzi favolistici, quali la «favola aerea» di Palazzeschi o la «favola apocalittica» di Volponi.

Con questi e altri esempi fra i più curiosi, talvolta anche con qualche rapida incursione nei secoli precedenti, per raccontare la favola nel Candelaio di Bruno e l’apologo scientifico di Galilei, verrà delineandosi, in ciascun brano, una rete di differenti tipologie narrative, volte alla ricostruzione diacronica del genere favolistico a partire dalla classicità di stampo greco-romano.

 

Favole e fiabe

«Le fiabe sono vere. […] Sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo o a una donna […], lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi […] anzi, il non poter liberarsi da soli: il liberarsi liberando»: con queste parole, nelle Fiabe italiane (Einaudi, 1956), Calvino definisce il fondamento e il confine della fiaba.

Nonostante, infatti, la letteratura favolistica venga spesso identificata erroneamente con la sola letteratura per bambini, essa costituisce in realtà un genere letterario piuttosto poliedrico, che annovera al suo interno disparate tipologie strutturali.

La prima indispensabile distinzione riguarda la classificazione teorico-formale che distingue il confine della fiaba dal confine della favola: la fiaba è costituita da un racconto generalmente basato su un procedimento narrativo innescato e poi perpetrato tramite l’azione di personaggi e vicende irreali, magici, meravigliosi. Al contrario, la favola, che nasce come genere prosastico con Esopo, poi ripresa e trasposta in versi da Fedro e recuperata da La Fontaine (cui si deve la grandissima spinta alla rinascita favolistica, non solo italiana, del Settecento), è invece un racconto, non esclusivamente breve, incentrato su un esempio da additare: l’insegnamento moralistico non solo prevale sulla trama, spesso molto semplice (risultano, ad esempio, totalmente assenti i viaggi e le peripezie tipici delle fiabe), ma è tendenzialmente inserito in una cornice che, anche se non squisitamente realistica, si configura come estranea alla dimensione fantastico-fiabesca.

Conseguentemente, l’allegoria costituisce quasi sempre una caratteristica strutturale alla forma tradizionale della favola, dell’apologo e della fiaba: all’esordio, non sempre conforme alla consueta struttura incipitaria («C’era una volta…», come nelle fiabe di Capuana), segue l’intreccio del testo che, più o meno breve, si basa su una grande immagine allegorica continuata, talvolta esplicitata nella morale conclusiva (l’epimitio).

Nella tipica favola esopica, come anche negli apologhi, infatti, gli animali protagonisti incarnano simboli di un vizio da rifuggire o di una virtù da abbracciare, sebbene i personaggi umani non siano obbligatoriamente esclusi dai racconti, ma anzi talora necessari all’azione narrativa mediante la loro interazione con altri animali o, più sporadicamente, con altri uomini.

Queste caratteristiche si riscontrano sia nelle raccolte autonome (come Scorciatoie e Raccontini di Saba, edito da Mondadori nel 1946, ma stampato più recentemente da Einaudi) sia nelle favole inserite nella cornice di opere letterarie di diverso impianto: lo mostrano inserti celebri, come il noto “Apologo sulla generazione dei suoni” incluso nel Saggiatore scritto da Galilei nel 1623, o come le favole del settimo capitolo della Coscienza di Zeno (Cappelli, 1923) di Italo Svevo. Inoltre, alcuni racconti e apologhi possono ampliarsi all’intera estensione di un romanzo o di un poema, come Il codice di Perelà (Edizioni futuriste di Poesia, 1911) di Aldo Palazzeschi.
Insomma, una casistica di così tante possibilità certifica un’impostazione talmente variegata da rinnovarsi con costante inventiva.

 

La prospettiva del Novecento

Nel Novecento, secolo di innovazione ma anche frantumazione e conseguente contaminazione dei generi letterari, le coordinate e il confine della favola mutano, sebbene non svaniscano completamente dal panorama letterario raccolte ispirate alla tradizione, come L’Esopo moderno di Pietro Pancrazi (Le Monnier, 1930): la componente didascalica propria dei secoli precedenti viene messa in discussione, a causa anche della diffusione di nuovi concetti etico-filosofici. L’incipiente relativismo gnoseologico e il senso d’incertezza che caratterizzano il secolo conducono a un rovesciamento prospettico: al monito paradigmatico si sostituisce l’enigmatica ambivalenza propria della realtà oramai concepita come contradditoria.

La favola, perciò, può tanto confermare valori condivisi, denunciandone contemporaneamente l’assenza, quanto ribaltare le opinioni comuni, così da proporre un principio controcorrente, pur se osteggiato dalla società. Insomma, la costante novecentesca risulta essere costituita dalla molteplicità delle prospettive (talvolta interne persino a uno stesso autore): non più pretesa di equilibrio o proposito didattico, bensì confusa percezione di inquietudine.

D’altronde, nel corso del Novecento l’adozione del genere favolistico risponde non solo a ragioni squisitamente letterarie, ma anche a fini propagandistici, come illustra l’analisi condotta da Stefano Pivato in Favole e politica (il Mulino, 2015).

Le peculiarità proprie della favola, tramutata in strumento di educazione ideologica, dipendono strettamente dalla dottrina da promuovere: i personaggi spesso si modificano in direzione di una zoomorfizzazione del nemico – una strategia rappresentativa che comporta contemporaneamente la ridicolizzazione e la disumanizzazione dell’avversario politico, affinché la sua figura, assunte sembianze (e quindi anche attitudini) animali, non susciti empatia né misericordia. L’ammonimento finale, inoltre, è sempre presente in forma esplicita e, anzi, spesso risulta accompagnato da un rigoroso sistema didascalico di nomi, cognomi, situazioni e date.

 

Il caso di Pinocchio

Un esempio assai significativo di rielaborazione in chiave politica di una storia è costituito dal personaggio di Le Avventure di Pinocchio (pubblicato prima a puntate tra il 1881 e 1882, poi come romanzo edito da Paggi nel 1883): il burattino di Collodi viene infatti reso protagonista della propaganda di regime da diverse correnti politiche e, per giunta, mediante l’adozione di differenti forme letterarie (ai romanzi si aggiungono i semplici racconti o persino gli opuscoli).

Pinocchio diviene dapprima eroe eponimo del fascismo, chiamato ad affrontare i nemici del sistema (siano essi i comunisti, gli inglesi o gli abitanti di territori da colonizzare).

Diffuse tra gli anni Venti e Quaranta del secolo, queste «pinocchiate» offrono uno spaccato propagandistico del Ventennio, poiché additano l’ortodossia fascista tramite le azioni narrate, ad esempio, nelle Avventure e spedizioni punitive di Pinocchio fascista di Giuseppe Petrai (Nerbini, 1923), oppure in Pinocchio fa i balilla. Nuove monellerie del celebre burattino e suo ravvedimento di Cirillo Schizzo (Neribi, 1927).

Il burattino è anche protagonista della trasposizione comunista de Le avventure di Chiodino di Marcello Argilli e Gabriella Parca: una sorta di piccolo robot costruito in laboratorio dallo scienziato Pilucca (rielaborazione in chiave tecnologica di Mastro Geppetto), in un mondo improntato agli ultimi ritrovati scientifici del tempo, affollato di operai, disoccupati e senzatetto.

E, in seguito alla lettura cattolica del romanzo condotta da Piero Bargellini ne La verità di Pinocchio (Morcelliana, 1942), dove la prima parte del libro è letta come «ciclo della perdizione» e la seconda come «redenzione», il burattino diviene mezzo propagandistico della Democrazia Cristiana in Le disavventure di Pinocchio, un opuscolo di trentuno pagine prive di indicazione autoriale pubblicato il 27 maggio 1961 – data che suggerisce come la favola possa essere stata diffusa in occasione delle elezioni amministrative di quell’anno.

Tuttavia, il panorama novecentesco contempla anche la presenza di racconti anti-propagandistici, tesi non all’identificazione di un paradigma ideologico-politico da accogliere, bensì allo smascheramento, in poche righe, dei meccanismi e delle dinamiche strutturali di un regime dittatoriale: così, in particolare, le Favole della dittatura (Bardi, 1950 ma recentemente edite da Adelphi) di Leonardo Sciascia.

In fin dei conti, non bisogna dimenticare il principio da cui il confine della favola si origina: Esopo e Fedro, due schiavi che, sfruttando il potere della parola per denunciare la propria e altrui condizione servile, adottano la favola come espressione del desiderio di libertà: «La schiavitù, che è suddita da sempre, / aveva da parlare e non osava, / e versò in brevi favole il suo cuore / scherzando sull’equivoco sottile», recita Fedro nei vv. 33-37 del prologo al terzo libro delle Favole (vv. 43-46 della trad. di E. Mandruzzato, Rizzoli, 1999).

(Nel testo, riproduzioni delle copertine di Cirillo Schizzo, Pinocchio fa i balilla. Nuove monellerie del celebre burattino e suo ravvedimento, Firenze, Neribi, 1927 e di Giuseppe Petrai, Avventure e spedizioni punitive di Pinocchio fascista, con disegni di G. Toppi, Firenze, Nerbini, 1923).