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Péter Nádas: Non possiamo fidarci di altro che del nostro intelletto
di Andrea Rényi / 13 febbraio
Nel 2019 la rivista letteraria ungherese online “Litera” (www.litera.hu) ha presentato una serie di interviste a scrittori ungheresi e non (fra i quali spiccano i nomi di Mircea Cărtărescu, Jonathan Franzen, Ilma Rakusa) intitolata Lo stato delle cose, sui dilemmi degli intellettuali nel ventunesimo secolo, con il seguente manifesto: «All’inizio del terzo millennio i sintomi della crisi si compattano in focolai di profondo malessere. I punti di riferimento stanno scomparendo. Sta diminuendo la fiducia nello spirito e nella cultura. In questa serie interpelliamo scrittori ungheresi e stranieri sulle strategie spirituali e del pensiero nel ventunesimo secolo». Il primo intervistato è stato lo scrittore, drammaturgo, giornalista e fotografo ungherese Péter Nádas (Budapest, 12 ottobre 1942), da anni ormai menzionato fra i probabili vincitori del premio Nobel per la letteratura. Della sua immensa produzione letteraria in italiano sono disponibili solo alcuni titoli come La Bibbia e altri racconti (BUR), Fine di un romanzo familiare (Dalai), Minotauro e Amore (Zandonai), il monumentale Libro di memorie (Dalai), e da poco il primo volume del capolavoro Storie parallele (Bompiani). Ecco il testo dell’intervista tradotta da Andrea Rényi:
Secondo lei, alla luce degli ultimi trent’anni, la nostra può considerarsi un’epoca, oppure la fine di un’epoca? Quali sono le sue caratteristiche?
A mio avviso né in Ungheria né nel mondo abbiamo raggiunto la fine di un’epoca, neppure quella della distruzione, anche se i ghiacciai si stanno sciogliendo, i livelli dei mari si stanno alzando, sempre più spazzatura si deposita in acqua e sulla terraferma, e non sappiamo che farcene delle scorie radioattive. Questo, né più né meno, è quello che sapevamo o avremmo potuto sapere che sarebbe successo già trent’anni fa. Il crollo dell’Unione Sovietica è stato indubbiamente la fine di un’epoca, da allora però tutto è rimasto pressoché immutato. Con operazioni cosmetiche i governi europei hanno rimosso le reti sociali che fino ad allora avevano funzionato in maniera esemplare, e hanno permesso che la politica cedesse il primato all’economia. Governano quindi gli interessi di grandi gruppi che non sono più collegabili a nazioni, individui o sistemi elettorali, e i governi dispongono soltanto del ruolo di vigili urbani. Possiamo dire invece che grazie al cherosene bruciato nell’aria, ai diserbanti, ai fitosanitari e ai farmaci che in quest’ultimo secolo hanno reso le nostre vite di individui molto più facili e producono utili a livello globale, prosegue più rapidamente l’estinzione di specie vegetali, api, insetti e mammiferi. Di questo possiamo ringraziare l’industria chimica, in particolare la Monsanto, e la Bayer che l’ha acquisita completa di colpe. Gli alimenti e l’acqua potabile sono pieni additivi e persino il latte materno mostra ormai tracce di antibiotici.
Quest’inverno anche gli uccelli sono diminuiti, basta guardare fuori dalla finestra. In questi ultimi dieci anni il manto erboso è scomparso dal mio cortile, eppure avevo fatto tutto il possibile per conservarlo. Trovo molto importante fare ogni tanto un bilancio di quello che ci è successo e delle conseguenze delle nostre azioni, ma per la verità le nostre azioni hanno poco a che fare con quello che succede e con le esigenze su grande scala sul piano sociologico e storico-tecnologico. Percorrono strade diverse, mentre noi non siamo i prigionieri di mutamenti globali, bensì delle opinioni di mamma e papà. La regina Vittoria è scomparsa da un pezzo, eppure i preziosi canoni morali della sua epoca resisteranno ancora per un bel pezzo nella nostra vita quotidiana, nonostante le nostre intenzioni e tendenze libertine. Che nemmeno la regina prendeva poi tanto sul serio, tant’è vero che si infilava spesso nel letto in pieno giorno con il bel principe Albert, oppure si sdraiava lestamente sul tavolo. Faceva bene. Da vedova preferiva il signor Brown, lo stalliere, da vecchia invece non riusciva a togliere gli occhi da Abdul Karim, il bellimbusto cameriere indiano. E aveva ragione. Le intenzioni individuali e le epoche non coincidono mai. Le epoche si sovrappongono. Varie tendenze si sovrappongono sempre nell’universo dello spirito e del pensiero, una sopra o sotto l’altra. Nemmeno una rivoluzione sanguinaria può porre fine alla loro moltitudine. Io per lo meno non vedo un nuovo gruppo o blocco di istinti, emozioni, idee o visioni sociopolitiche, che potrebbero sostituire saldamente quelle antiquate, sorpassate e chiaramente nocive.
Al contrario. C’è voglia di antichissimo, di consumato, di usato, malgrado alla fine di ogni campagna elettorale i ministri principali promettano ai popoli che da quel momento in poi, all’insegna del progresso, potranno stare meglio e avere di più. C’è richiesta di regressione, di ripetizione, di minestra riscaldata, di chiacchiere vuote, delle parole deleterie, a vanvera, della piccola borghesia. Nella letteratura e nell’arte c’è voglia di ciò che c’era già stato una, due, cinque volte, del riflusso, del riscaldato, dunque di nobili manierismi. Nella cultura di massa di tutto quello che in teoria la modernità aveva già lasciato dietro di sé, del mitico, del magico, del corpo tatuato, della danza rituale, tribale, cioè della rinuncia spontanea all’individuale, della scomparsa senza traccia, dello zelante fondersi con la moltitudine, dell’opportunismo completo e perfetto, quello di gruppo, dello spirito di banda, non importa se il sistema politico sia democratico o dittatoriale.
Com’è cambiato il ruolo dell’intellighenzia in queste circostanze? Servono nuove strategie di vita esterne e interne?
Che io sappia, non è mai esistita una classe intellettuale omogenea, anche se è fuori dubbio che persone con formazione scientifica avevano preso in consegna dagli ordini ecclesiastici il governo spirituale e intellettuale della società. Intellighenzia, in russo intelighencijà. Queste intelighencijà sono sempre state tanto composite quanto è stratificata la società. Sostituivano con concetti il principio di regia autoritaria del re, fossero essi decabristi, panslavisti, monarchici, democratici, anarchici, bolscevichi, comunisti, nazionalisti, fascisti, liberali, sionisti o semplicemente razzisti, secondo le idee o le fantasie di ciascuno su come trasformare completamente la società. In base alle esperienze del diciannovesimo e ventesimo secolo, e in qualità di lettore di Cechov e di Dostoevskij, ho forti dubbi riguardo ai movimentisti istruiti.
Cosa può sorreggere, in che cosa può riporre la fiducia, in che cosa può sperare il ceto intellettuale all’inizio del ventunesimo secolo?
In nulla e nessuno, con l’eccezione del proprio intelletto. Con questo però non ho detto nulla, oppure ho detto addirittura troppo. Mi dispiace, ma gli esseri umani non possono fidarsi che dell’intelletto. La forza e la furbizia hanno fallito. Anche i nostri istinti li possiamo a tenere a bada solo con la ragione.
Neppure gli anti-illuministi possono prendere decisioni con strumenti che esulino la loro ragione. Posso solo sperare che la mia mente conservi, e nel momento opportuno ripeschi per sistemare nei luoghi adatti, le mie cognizioni più volte controllate. Cosicché in certi casi io tenga la bocca chiusa, e in altri la apra senza possibilmente far male ad alcuno. O perché mi ritiri in un angolo, quando vengo colto da un attacco di rabbia. Ma che in qualche altra occasione invece io esca in strada per darle sfogo pubblicamente.
L’indomabilità della realtà sta diventando sempre più evidente e minacciosa; la crisi migratoria provoca agitazioni politiche, sospetto e chiusura, il cambio climatico mette a repentaglio l’esistenza stessa sulla Terra. In questa situazione eccezionale le arti sono in grado di captare la crisi, darle una definizione e misurarla con la lingua?
Non lo si può fare essendo allo stesso tempo totalmente conformisti e anarchici, rivoluzionari, ribelli. Non funziona neppure diventando un artista maledetto che incassa un formidabile successo di pubblico e soldi a palate. Non va bene nemmeno semplificando, cancellando tutto l’esistente dalla superficie terrestre per ricominciare da capo.
La condizione del mondo e quella della singola persona non possono essere tanto diverse da non riuscire a comprenderle. Sono state causate da uomini, quindi possono essere afferrate da altri uomini. Io però non sono portato per la comprensione. Comprendere non è distinguere la bugia dalla verità, o separare la facciata dalla sostanza, oppure disporre di un quadro strutturale o di collegamento della realtà. Per completare queste operazioni dobbiamo innanzitutto riconoscere che nessuno è in grado di svolgere questo compito da solo. La cosiddetta libertà dell’artista dipende dall’ammetterlo o meno.
Sono visibili delle tendenze nella letteratura che disegnano la trasformazione intellettuale in questi anni del terzo millennio? Se sì, come sono?
È improbabile che il mondo civilizzato possa superare il personale, l’individuale, il proprio, ovvero le caratteristiche individuali; di questo possiamo essere certi.
L’individuale però deve specchiarsi intensamente nella massificazione. Per il momento solo nello slam poetry vedo una tendenza adeguata all’epoca. Non nel pop o nel rock, fenomeni della regressione magica, e nemmeno nel rap, che rientra nella tradizione dell’agit prop e della chastushka. Lo slam rappresenta una relazione nobile fra l’individuo e la folla raccolta.
In Ungheria l’intellighenzia indipendente e di sentimento democratico sembra essere caduta in trappola. Sono numerosi i casi in cui i membri della comunità costretti dal potere a compiere qualche passo non trovano risposte univoche e valide. Il governo ha radicalmente ridimensionato l’estensione dello spazio pubblico, ha centralizzato i media, ma non ha liquidato del tutto la libera espressione. Sia un’opposizione coerente che l’assunzione responsabile di un ruolo presentano tranelli insidiosi. A volte la libertà creativa viene limitata, eppure le opere possono essere pubblicate e i teatri continuano a operare. Se anche secondo lei i dilemmi appena descritti esistono, quali opzioni vede per scioglierli?
Da decenni per me la domanda è piuttosto un’altra: può il capitalismo quadrare con la ragione umana? Sì, può farlo in qualche caso e localmente. Riguardo la sostanza del capitalismo, nella nostra area geografica si impone invece la domanda su com’è possibile un’economia capitalista senza capitale, come può essere competitiva una regione povera di capitale, e anche l’opposto, ovvero se è possibile l’accumulo di capitale iniziale senza commettere furti, truffe e omicidi a scopo di lucro, facendolo stringendo sodalizi criminali. E se non è possibile, in quell’area geografica ci si può aspettare una vita politica equilibrata e scevra di estremismi, oppure bisogna abituarsi alla folle frenesia diffusa e alle tante bugie dettate dall’interesse del momento? Ossia se il capitalismo può funzionare senza una forte classe media pronta a investire, o se può esistere una democrazia senza democratici istruiti e forgiati nella lotta, e se nell’epoca del flusso e dell’offerta globali di capitalismo si può sperare nel funzionamento ragionevole delle istituzioni democratiche. Se il movimento del capitale esteso a tutto il globo terrestre avviene al di fuori delle leggi emanate dai parlamenti nazionali, o meglio, se i parlamenti nazionali non sanno rendere trasparenti e regolare con accordi globali i movimenti finanziari, è chiaro che gli spostamenti avvengono in maniera non trasparente e il loro funzionamento non può essere seguito razionalmente. Mentre si moltiplicano comunque le eventualità di una totale catastrofe naturale. A volte i mercati finanziari non sono diretti neppure da decisioni personali ma da algoritmi, e non solo agiscono sopra le teste delle democrazie più forti, ma con il loro funzionamento rendono direttamente possibile che le democrazie più forti accumulino debiti mai restituibili, e secondo le antiche regole del populismo i capi di governo possano fare promesse sempre più grandi ai popoli che si fingono creduloni. Il funzionamento incontrollato dei mercati finanziari ha indebolito prima di tutto le più forti democrazie rappresentative, privandole delle proprie competenze. Eppure il sistema elettorale poggia proprio su queste competenze. Non vale la pena parlarne senza prima prendere in considerazione questo tipo di collegamenti. Ma se non vogliamo trattare il tema in toto, possiamo parlare dell’area geografica in cui il crollo dell’impero sovietico ha posto la popolazione e i governi fra le più diverse tendenze politiche davanti a particolari compiti da risolvere. Che nei primi quindici anni sembravano superabili, mentre oggi i tentativi di trovare una soluzione si rivelano fallimentari. Possiamo parlare del comportamento di questa area geografica priva di autentici democratici e borghesi benestanti nell’ambiente euro-atlantico, dove da secoli è in corso l’accumulo di conoscenze e capitali operanti. Facendolo non staremo meglio, né la nostra vita diventerà più facile, eppure da tempo sono convinto che semplificare le situazioni complesse non conviene.
Qui si può leggere l’intervista in lingua originale e qui in inglese.
Nell’immagine: Péter Nádas, foto di Gábor Valuska