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Vita della tua ombra

A proposito di “Kornél Esti” di Dezső Kosztolányi

di Claudio Musso / 29 giugno

Scrittore di spicco della letteratura ungherese ma anche mitteleuropea del primo Novecento, Dezső Kosztolányi torna nelle librerie italiane con Kornél Esti (Mimesis, 2022, traduzione di Alexandra Foresto). Si tratta di una serie di racconti pubblicati dall’autore sulla stampa magiara tra gli anni Venti e Trenta che hanno tutti come protagonista il personaggio del titolo. Mimesis, a differenza di altri editori, soprattutto esteri, che hanno operato una selezione arbitraria all’interno del corpus delle novelle, nella presente edizione si attiene alla cronologia di pubblicazione e manda alle stampe i diciotto racconti del primo ciclo.

Ne risulta un’operazione interessante che da un lato colma una lacuna nel nostro panorama editoriale, dall’altro consente anche al lettore italiano di avere un quadro più completo dell’opera di Kosztolányi, già apprezzato in passato in Italia con opere quali Nerone, Allodola o Anna Édes. La raccolta di Kornél Esti sigla infatti la svolta estetica di uno scrittore che, approssimandosi alla fine della propria esistenza, abbandona il romanzo classico a favore del frammento e di una scrittura più discontinua che sfiora il picaresco e il metaletterario. Questi testi ci offrono l’autoritratto di uno scrittore che si racconta al proprio pubblico ammiccando allo humour sovversivo e a un gusto per il non ordinario alla Alphonse Allais, e che, al contempo, lo fa in maniera speculare attraverso la figura del suo doppio, Kornél Esti, appunto.

Esti è qualcosa di più del classico Doppelgänger. Ha lo stesso viso di Kosztolányi, i suoi stessi occhi e persino il modo di dividersi i capelli, è nato il suo stesso giorno e come lui è uno scrittore, ma si è costruito una vita completamente diversa. Infatti, mentre l’autore rimaneva protetto dalle mura di casa in Ungheria, lui si dava all’avventura per il mondo volando sopra le nazioni, improvvisandone gli idiomi, e garrendo l’eterna rivoluzione. Perché quello che Kosztolányi ha represso a causa dei suoi costumi borghesi, l’altro lo ha gridato comportandosi meno da gemello malvagio e più da ombra junghiana. Di conseguenza Kornél Esti si configura come una sorta di parodia del sé emotivo e civico dell’autore, è al contempo tutto ciò che non è o comunque non ha mai voluto essere, è la metà oscurata che viene lentamente riscoperta e apprezzata mentre si avvicina il crepuscolo della vita. È colui che sin dall’infanzia ha sempre consigliato a Kosztolányi di essere altrimenti. Per questo l’autore lo ha respinto e allontanato, per poi cercarlo e stringerci un patto, pur di non perdere questo outsider, acuto osservatore e perspicace cronista del loro ambiente.

Dunque i due si ritrovano e si mettono in società per scrivere un libro in cui è Esti a portare ricordi della sua esistenza ed episodi di viaggio, nei quali la minima banalità della vita di tutti i giorni diventa pretesto per una storia straordinaria; Kosztolányi –  che rimane anonimo in tutti i racconti – nel frattempo stenografa e poi edita sottraendo una buona dose di aggettivi e metafore di cui il compagno è particolarmente prodigo.

Il risultato sono brevi scritti, a volte anche aneddotici, con qualche incongruità – si tratta di testi pubblicati lungo un decennio –, alcuni con maggiore presa sul lettore di altri, quando le pennellate narrative si fanno più vigorose nel penetrare lo sguardo e i pensieri di Esti. Questo racconta storie ed esperienze passate con sguardo retrospettivo e ci offre una cronaca, a volte nostalgica, altre critica, di una Budapest, o forse di un mondo, che non c’è più. La frammentarietà delle vicende narrate dà vita a un mosaico vivace di storie e situazioni che annidano al loro interno un sottotesto che guarda alla contemporaneità e, in modo particolare, alla scoperta dell’essere umano dietro l’essere umano, scrutandone le incongruenze e denunciandone la natura profondamente contraddittoria che lo rende incostante.

Ne risultano ritratti senza concessioni ma privi di condanne: oramai Kosztolányi è diventato, nonostante l’ironia e la vivacità che irrorano il testo, spettatore consapevole e insieme stanco di queste debolezze. Per queste ragioni la prosa è sempre espressiva, apparentemente lieve e mimetica, capace di accumulare dettagli con grazia nonostante la disordinata e variopinta emotività di chi racconta. Kosztolányi allora funge da zavorra che bilancia l’estrosità del narratore e, da homo aestheticus qual è, la traspone in una forma più confacente alle peculiarità della propria scrittura.

Kornél Esti è come l’uomo del bar che racconta storie altre ma che è così coinvolgente nel farlo che non interessa dove finisce la verità e comincia la bugia, si vuole solo che continui a parlare. Tra i tanti racconti ci piace ricordarne alcuni soprattutto per via dei messaggi di cui si fanno latori. C’è il racconto dedicato a quanti fuggono spinti dal desiderio di conoscenza: Esti prende un treno per l’Italia nel desiderio di liberarsi delle insoddisfazioni e di vedere per la prima volta il mare; arrivato a Fiume può gridare finalmente, come i protagonisti dell’Anabasi di Senofonte, «Thalassa! Thalassa!», come se nominare il mare lo rendesse più vero. È la felicità di chi può diventare un altro o comunque mettere in moto un altro sé a lungo soffocato.

C’è il racconto dedicato a chi ha bisogno di autenticità: Esti e Kosztolányi visitano – con Swift che intrama le pagine – la “città degli onesti”, in cui la verità non viene più nascosta sotto il moggio e l’autocritica non viene più praticata. Sulle vetrine dei negozi campeggiano infatti scritte da pubblicità inversa che affermano che le scarpe fanno venire i calli, le pietanze sono immangiabili, i libri sono noiosi, mentre i giornali invitano a non prendere per oro colato quello che scrivono. Nonostante ciò, i negozi sono pieni di clienti per quel bisogno dell’uomo di accedere a un consumismo dichiaratamente nocivo ma di cui vuole essere comunque fruitore.

C’è il racconto che rievoca i caffè di Budapest come enclave culturale, frequentata tanto da Esti quanto da Kosztolányi, dove si danno ritrovo scrittori, collezionisti d’arte, medici, decoratori, studenti, fotografi, tutti accomunati dalla fretta di penetrare, nelle loro conversazioni brillanti, spesso malinconiche – che vanno dal libero arbitrio dell’uomo alla paga media in Inghilterra –, il senso di ogni cosa. Un luogo dove si parla di tutto, una sorta di finestra sul mondo che osserva e si interroga.

Di particolare rilevanza è il racconto-ritratto di una certa idea di Germania. Esti, nel suo girovagare,  narra di essere stato in terra tedesca e di averne apprezzato la pulizia e il rigore, oltre alla proverbiale precisione. Tuttavia a colpirlo maggiormente è l’anziano presidente di un’associazione culturale tedesca che organizza instancabilmente conferenze in ogni dove. Il relatore di turno però non fa in tempo a prendere la parola che, senza dare nell’occhio, il presidente si addormenta in modo consapevole e composto. Un sonno che, a ben guardare, non disturba i presenti perché viene percepito come forma di rispetto della cultura, libera in questo modo di prendere la parola senza interruzioni, indipendentemente da chi ne è il portavoce in quel momento sul palco. Quel sonno è per Esti l’approvazione definitiva. Il presidente ha inoltre la capacità straordinaria di svegliarsi nel momento esatto in cui l’oratore termina il suo intervento per i ringraziamenti di rito e passare al successivo. Il racconto è stato pubblicato nel 1933 e non pare un caso che Esti individui la presenza a queste conferenze di quei “nuovi poeti” che, irritati dal sonno presidenziale e comunque tenuti in poco conto, alla luce della lanterna della vanità e rovistando come i profanatori di tombe, cercano lo scandalo per denigrare quell’uomo a loro dire incapace di guidare in modo vigile la nave culturale della nazione. Lo sguardo di Kosztolányi è chiaramente rivolto con preoccupazione a Ovest e al nazismo oramai al potere.

L’ultimo capitolo, con il quale Kosztolányi e Esti si congedano dal lettore, ci racconta una corsa quotidiana in un tram affollato di Budapest che appare come la metafora della vita umana. Esti cerca di salire per trovare un posto, un buon posto, benché venga spintonato da altri mossi dal suo stesso intento. Alla fine ce la fa, suscitando le ire dei passeggeri invidiosi del suo successo. Da uomo perennemente in fuga prova subito disgusto e non vede l’ora di uscire, perché stare seduto su quel tram lo fa sentire rigido e immobile come un burattino solitario lasciato a sé stesso. Sceso dal tram, dove andrà? La destinazione è ignota, da Esti c’è da aspettarsi di tutto, ma ci piace immaginarlo che, come scrive Péter Esterházy nella postfazione di questa edizione, «gioca e si ribella. Si ribella contro la noia e la noiosità, e si ribella in nome degli afasici, di coloro che non sanno parlare». È il ribelle che è in noi e che prende la parola.

 

(Dezső Kosztolányi, Kornél Esti, traduzione di Alexandra Foresto, Mimesis, 2022, 300 pp., euro 18, articolo di Claudio Musso)