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Libri

Zweig al Grand Budapest Hotel

A proposito di “La società delle chiavi incrociate” di Stefan Zweig - Wes Anderson

di Claudio Musso / 2 marzo

Chi ha visto il film Grand Budapest Hotel  ricorderà che, nel momento di maggiore difficoltà, il protagonista, Monsieur Gustave – Trimalcione premuroso nella cura degli propri ospiti ma anche Don Giovanni assiduo frequentatore delle stanze di signore attempate, preferibilmente bionde –, riesce a ottenere aiuto e protezione dall’associazione segreta dei concierge dei più prestigiosi hotel del mondo, di cui lui stesso fa parte, che hanno in due chiavi incrociate la cifra della propria coesione.

Ci piace pensare che quel simbolo richiami anche il forte legame tra il regista del film, Wes Anderson, e la vita e le opere di Stefan Zweig, come riportato nei titoli di coda: il film, sfiorato dalla grazia della leggerezza, da una certa poesia visiva ma anche da passi di danza sull’abisso, riverbera la vita reale dello scrittore viennese, quella onirica delle sue storie e infine quelle stesse storie nel tessuto della quotidianità, mostrando quanto tutte queste cose siano intrecciate.

In questo contesto risulta interessante l’uscita in libreria presso Editoriale Jouvence di La società delle chiavi incrociate, pubblicato per la prima volta nel 2014. Il testo si apre con una chiacchierata, tradotta da Giulia Vallaqua, tra il regista e George Prochnik, autore di un’accurata biografia di Stefan Zweig, in cui emergono non tanto le influenze dell’opera letteraria sulla pellicola – certo qualche suggestione è facilmente rintracciabile –, quanto su Anderson come lettore. Quest’ultimo scopre Zweig per caso e poi fa incetta dei suoi romanzi, come accade a molti, e in questo testo, come in una sorta di antologia, riporta pagine scelte da tre sue opere che lo hanno segnato, desiderando condividerle con altri per i quali vale ancora la domanda: «Zweig! Chi era costui?». La folgorazione sulla Ringstrasse risulta chiara per Anderson, sia nel preludio con Prochnik che nella selezione dei brani, soprattutto nel momento in cui ci si imbatte in riflessioni come questa: «Ogni ombra in fondo è anche figlia della luce e solo chi ha potuto sperimentare tenebra e chiarità, guerra e pace, ascesa e decadenza, può dire di avere veramente vissuto». Un messaggio che suona quanto mai attuale a osservare il mondo che ci circonda e che ci conferma l’universalità dell’opera di Zweig.

Che sia un lettore ma anche un regista di culto a farci conoscere Zweig – quello più squisitamente romanzesco, perché poi c’è anche l’altro, l’autore di accurate biografie storiche con felice mano da ritrattista – rende ancora più stimolante l’avvicinarsi alle opere di un autore che ha subìto negli anni, anche in Italia, tra editori e lettori, l’alta e la bassa marea della popolarità. E pensare che egli è stato nel primo Novecento l’autore di lingua tedesca maggiormente conosciuto all’estero, per la sua capacità di avvicinare un vasto pubblico di lettori divulgando una materia storica e umana in cui era facile identificarsi, da attento e imparziale testimone del proprio tempo, condividendone in prima persona la sorte tragica, e da assertore della libertà interiore dell’uomo. Il cinema in qualche modo gli è sempre invece rimasto fedele. Sono infatti numerose le versioni cinematografiche tratte dalle sue opere: da La paura di Roberto Rossellini fino al recente Il re degli scacchi diretto da Philipp Stölzl, passando per Lettera da una sconosciuta di Max Ophüls.

Tornando alla mediazione di Anderson, il libro di Jouvence ci permette di addentrarci in tre testi che pongono al centro della propria riflessione l’evocazione di un mondo perduto attraverso l’autobiografia di un europeo senza Europa, ormai esule, il tema di una vita scelta dagli altri e del difficile compromesso con la compassione, la capacità di ritrovare le parole adatte per ricordare un evento spartiacque nella propria vita che si è chiuso nell’oblio.

Il mondo di ieri, pubblicato postumo nel 1944 (qui proposto nella traduzione di Giuseppe Dolei), l’anno prima che Zweig, esule in Brasile per la sua ebraicità, si suicidasse, è un’autobiografia e, al tempo stesso, il ritratto incantato di quella Felix Austria definitivamente scomparsa. Anderson ne seleziona i capitoli iniziali, quelli dedicati alla formazione, soprattutto culturale, di Zweig, che arrivano fino ai prodromi della Prima guerra mondiale. È come se Anderson volesse espungere l’elemento guerra, lasciando un finale aperto e mantenendo intatta un’atmosfera di vita colta, raffinata e libera, la stessa, sospesa e lontana dalla Storia, che si poteva respirare al Grand Budapest Hotel. Ricorda infatti il regista:

«Credo che l’arte fosse il centro della sua attività e anche di ciò che c’era di più popolare. Un dettaglio che ricordo dal Mondo di ieri è che i quotidiani che ricevevano ogni mattina contenevano poesie e scritti filosofici. Lui e gruppi di amici si riunivano regolarmente nei caffè. Nuove opere teatrali venivano prodotte di continuo e tutti seguivano i drammaturghi. Vienna era un luogo di grande e profonda cultura, ma quest’ultima subiva un trend equivalente a quello delle rockstar: era la moda del momento. La cultura era estremamente popolare nella Vienna del tempo. Zweig viveva esattamente nel cuore, nell’epicentro di questo fenomeno. E ci visse fino al momento in cui tutto finì».

Lo Zweig che leggiamo in questi primi capitoli è un uomo che vive in un mondo di sicurezza garantita dall’Impero asburgico, per il quale guerre e rivoluzioni sono inimmaginabili, sicurezza che diventa anche un ideale di vita e una commovente fiducia nel poter recingere la propria esistenza contro tutti gli assalti del destino a cui si associa, specie nelle generazioni più giovani, la fede quasi religiosa nel progresso. Zweig, rampollo della buona borghesia ebraica, nei propri ricordi si sofferma su un tema divisivo, negli anni della sua giovinezza, quando ancora  essere ebreo non era diventato un problema. Spiega infatti come l’ideale immanente degli ebrei viennesi di allora non fosse diventare ricchi quanto ascendere alle professioni intellettuali e confondersi nella comunità umana, liberandosi dalle piccolezze del ghetto dei propri avi e facendo della cittadinanza austriaca una missione davanti al mondo.

Zweig vive la propria giovinezza in una città artigiana di cultura – non solo per le classi elevate –, accogliente e dotata di una peculiarità: attira a sé le forze più disparate, le mitiga, le seduce, le placa. A Vienna vige un’atmosfera spirituale e conciliante in cui ogni abitante è inconsapevolmente educato all’internazionalismo, al cosmopolitismo, a essere un cittadino del mondo interno. Un aspetto di cui Zweig sarà alfiere per l’intera vita, grazie ai suoi numerosi contatti con esponenti della cultura di tutto il mondo, una sorta di società delle chiavi incrociate. E non stupisce come la successiva introduzione dei passaporti risulti non solo ingombrante, ma una vera e propria forma di controllo per chi come lui perde la libertà geografica, la possibilità di attraversare i confini senza pensarci. Ci tornano alla mente le scene in treno di Monsieur Gustave, accompagnato dal suo braccio destro, un immigrato di nome Zero, un altro uomo senza patria, in cui questi vengono fermati per il controllo di documenti, che diventano essenziali e addirittura una questione di vita o di morte.

Tornando ai ricordi biografici di Il mondo di ieri, Zweig ci offre nel capitolo “Eros Matutinus”, che Anderson inserisce nella scelta, perché ulteriore tessera del puzzle dell’ambiente viennese, una tassonomia della sessualità sotterranea, specie per i giovani, della città di fine secolo: un mondo di cui tutti conoscevano l’esistenza ma di cui non si doveva parlare apertamente. A questo si aggiunge la frequentazione di Zweig dell’ambiente degli universitari, che si percepivano come una élite a sé stante, con una propensione all’aggressività e, allo stesso tempo, a quella servilità da orda che costituisce il lato peggiore e più pericoloso dello spirito tedesco. Se c’è dunque in queste pagine la nostalgia commemorativa di un mondo che non esiste più e che dava quella sicurezza di cui Zweig sarà poi privato con il crollo della monarchia asburgica e l’avvento del nazismo, emergono anche affondi di acuta riflessione sulla natura umana che verranno ulteriormente nutriti dagli anni berlinesi, vissuti decisamente più a briglia sciolta, lontano dall’ambiente posato da cui proveniva, prediligendo figure intense e indomabili che saranno poi al centro di molti suoi romanzi successivi.

Resta comunque indubbio che la Prima guerra mondiale venga percepita da Zweig come una cesura che pone fine a un sentimento di crescita e di europeismo. Lo scrittore osserva infatti che vi fu un eccesso di forza come tragica conseguenza di quel dinamismo interiore accumulatosi in quarant’anni di pace, e che doveva necessariamente esplodere con violenza. Ogni stato ebbe improvvisamente la sensazione di essere forte e dimenticò che anche gli altri si sentivano allo stesso modo: ognuno voleva di più e qualche cosa dall’altro. E a poco valsero gli impegni degli intellettuali, a cominciare da quello di Romain Roland – il cui incontro segna la vita di Zweig –, il loro appello alla fraternità quando non fanno ancora propria la preoccupazione dei venti di guerra.

In L’impazienza del cuore, il suo primo romanzo, pubblicato nel 1939, qui proposto nella traduzione di Umberto Gandini – secondo testo scelto da Anderson –, Zweig riporta il racconto di un ex militare pluridecorato durante la Prima guerra mondiale, che confessa di essere più un disertore della propria responsabilità che un eroe del senso del dovere. Un uomo che è stato obbligato a seguire, per così dire, il cursus honorum della vita militare e che poi si trova ad affrontare altri doveri. Il libro si apre con uno scrittore noto che visita un ristorante fuori Vienna che suppone essere passato di moda. Ma poi ritrova oggetti e visi familiari e viene approcciato da un Adabei, reso in italiano con un “Eccomi”, quel genere di persona che conosce chiunque, almeno in modo superficiale, che si muove tra la gente e passa da un tavolo all’altro raccontando aneddoti su questo e quello, compreso in questo caso il militare, di cui si scoprirà così la storia. Nelle scene iniziali di Grand Budapest Hotel troviamo uno scrittore che torna dopo anni in quell’hotel dove nulla è cambiato, a parte la vocazione alla decadenza, e ritrova Zero, il braccio destro di Gustave, l’“Eccomi” della situazione, che nel frattempo ne è diventato il proprietario. Ma ciò che lo ha segnato nell’esperienza di lettura, spiega Anderson, è il concetto di «pietà distorta», di cui Zweig offre una singolare doppia definizione:

«Ci sono due tipi di compassione. L’una, quella debole e sentimentale, che è soltanto impazienza del cuore, vuole solo sbarazzarsi il più in fretta possibile della penosa commozione prodotta dall’altrui infelicità; non è affatto una con-passione, ma solamente un’istintiva reazione di difesa del proprio animo di fronte alla sofferenza del prossimo. E poi c’è l’altra, l’unica che conti: la compassione non sentimentale, ma fattiva, quella che sa ciò che vuole, quella decisa a sopportare tutto con pazienza e comprensione, fino allo stremo delle proprie forze e anche oltre».

Tutti vogliono parlare con Zweig, fatto che emerge spesso nei racconti, vista la sua capacità di ascoltare con attenzione e la franca predisposizione a dare il proprio parere, gentile ma sempre puntuale, a volte pungente, sempre con quell’invito a raccontare e raccontarsi con la massima sincerità. Succede alla protagonista di Ventiquattro ore nella vita di una donna, pubblicato nel 1927 e qui tradotto da Cristina Baseggio, un racconto che ha come sfondo un gruppo di ospiti di un lussuoso hotel della Costa Azzurra. Un’anziana signora inglese racconta proprio a Zweig le sue ventiquattro ore di un giorno di trent’anni prima, quando si trovava al casinò di Montecarlo, con il lutto ancora addosso. A colpirla erano state le mani parlanti dei giocatori della roulette, mani come cavalli trattenuti a fatica affinché non scattino anzitempo, che tremano, si alzano e si impennano e rivelano la personalità dei loro proprietari: il cupido dalla mano adunca, il prodigo dalla mano floscia, il calcolatore dal polso calmo, il disperato dal polso traballante. E sarà proprio su quest’ultimo tipo che la donna inglese aprirà una parentesi senza avere la forza di chiuderla. E racconterà quelle ventiquattro ore che hanno cambiato la sua vita. Perché Anderson sceglie questo racconto per concludere la raccolta? Perché alternando con maestria tensione narrativa e sottile scandaglio psicologico Zweig ci offre non solo un testo moderno e conturbante su quanto il destino sia imprevedibile, ma ci introduce in controluce quella poetica che troverà poi formulazione in questo brano compreso nell’antologia andersoniana:

«Il poeta, invece di inventare, ha solo bisogno di farsi trovare dai personaggi e dagli avvenimenti, i quali, se avrà saputo conservare con una lucida capacità di vedere e ascoltare, lo cercheranno di continuo perché si faccia loro narratore: a chi ha spesso tentato di spiegare i destini, molti riferiranno i loro».

 

(Stefan Zweig, La società delle chiavi incrociate. Le opere che hanno ispirato Grand Budapest Hotel. Con un’intervista a Wes Anderson, Editoriale Jouvence, 2022, 290 pp., euro 19, articolo di Claudio Musso)